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Il Cammino dal Dojo alla Vita – 2

Il Cammino dal Dojo alla Vita – 2

Quello che il Karate mi ha dato e quello che mi ha chiesto di lasciare.

Di Luigi Zoia

Karate
Quando entrai per la prima volta in un dojo, ero poco più che un ragazzo.
La città fuori correva, rumorosa e disordinata, ma appena varcata la soglia, tutto cambiava.
Il pavimento coperto di tatami aveva un odore inconfondibile: un misto di sudore, legno e attesa.

Mi ha insegnato a guardarmi dentro attraverso il corpo, a conoscere me stesso attraverso la fatica e la resistenza.

Il silenzio non era vuoto, ma carico, denso.
Ogni respiro sembrava pesare più del normale, come se lì dentro l’aria fosse satura di storie, di urla spezzate e di inchini silenziosi.
Il Karate mi ha dato molto, quasi tutto in quegli anni.
Mi ha dato disciplina: non solo la puntualità e la costanza dell’allenamento, ma un rispetto che partiva dal corpo e arrivava fino all’anima.
Ogni gesto – dal saluto al primo kihon – non era un semplice movimento, ma un impegno a stare dentro una forma più grande di me.
Mi ha regalato regole chiare, una gerarchia che in un mondo confuso dava orientamento.
Mi ha insegnato che la ripetizione non è sterile, ma strada: dieci, cento, mille volte lo stesso pugno, fino a scoprire che non sei più tu a farlo, ma il pugno a “farsi da solo”.
Mi ha insegnato a rialzarmi dopo ogni caduta, non con rabbia, ma con tenacia.
E soprattutto mi ha insegnato a guardarmi dentro attraverso il corpo, a conoscere me stesso attraverso la fatica e la resistenza.
Ma non è stato un dono a senso unico.
Il Karate mi ha chiesto molto, a volte tutto.
Mi ha chiesto di piegare l’orgoglio, accettando correzioni dure, anche umilianti.
Mi ha chiesto di rinunciare a serate spensierate, a vacanze, ad amici che non capivano perché “perdevo tempo” in palestra.
Mi ha chiesto di dedicare giorni, settimane, anni interi a un percorso che non concedeva scorciatoie.
E, col tempo, quel peso è diventato evidente: ciò che mi sosteneva rischiava anche di stringermi.

Restare per lealtà è nobile, ma restare per paura è veleno.

Vita
Fuori dal dojo, ho riconosciuto lo stesso schema.
Ogni grande esperienza che mi ha fatto crescere – una carriera, una relazione, un progetto – ha avuto un momento in cui l’energia iniziale si è trasformata in rigidità.
All’inizio tutto è stimolo, scoperta, crescita.
Poi, piano piano, ciò che ti nutriva diventa gabbia.
È successo nel lavoro: il ruolo che avevo tanto desiderato, un giorno, ha iniziato a soffocarmi con regole e vincoli che non mi appartenevano più.
È successo nelle relazioni: abitudini che mi davano sicurezza hanno cominciato a costruire muri invisibili, impedendo la libertà di esprimermi.
È successo persino con i miei sogni: l’ideale che mi aveva acceso diventava, con il tempo, un elenco di doveri, una lista da spuntare.
Il problema non era il lavoro, né la relazione, né il sogno.
Il problema era dimenticare perché ero lì.
Rimanere, solo per paura di perdere ciò che avevo conquistato.
Ho imparato che restare per lealtà è nobile, ma restare per paura è veleno.
E che, a volte, il vero coraggio non è resistere fino all’ultimo, ma lasciare andare al momento giusto.

Il tatami non è più sotto i miei piedi, ma dentro di me.

Integrazione
Il Karate mi ha mostrato una verità semplice, ma dura: ogni dono autentico chiede qualcosa in cambio.
Ti offre disciplina, ma ti chiede libertà.
Ti offre crescita, ma ti chiede tempo ed energie.
Ti offre identità, ma ti chiede di sacrificare un pezzo di chi sei stato.
La crescita non avviene accumulando, ma attraversando cicli: ricevere fino in fondo e poi restituire lasciando andare.
Se resti attaccato, la pratica muore dentro di te.
Se lasci con rancore, ti privi della parte migliore di ciò che hai vissuto.
Il punto è completare il cerchio con gratitudine.
Quando ho lasciato il dojo, non è stato un rinnegare.
Ho portato con me la disciplina imparata, la capacità di affrontare conflitti con lucidità, la resilienza di rialzarmi dopo le cadute.
Il tatami non è più sotto i miei piedi, ma dentro di me.
Lo ritrovo in una conversazione difficile, in una decisione complessa, nei momenti in cui devo scegliere tra paura e verità.
Il Karate mi ha formato.
Lasciarlo, un giorno, mi ha liberato.
E oggi posso dire che il vero tatami è ovunque: in casa, al lavoro, nei rapporti con gli altri.
Il Do non si esaurisce nel karate-gi.
Quando togli la divisa, resta la via.
E quella via ti accompagna, invisibile, anche nei gesti più semplici: il modo in cui respiri davanti a un conflitto, il modo in cui guardi negli occhi chi ai di fronte, il modo in cui affronti la vita senza arretrare.

Apertura di campo
E tu?
Hai mai vissuto un momento in cui ciò che ti aveva formato ha cominciato a chiederti di lasciarlo andare?
Hai trovato il coraggio di aprire la porta a un nuovo inizio, senza tradire ciò che ti aveva fatto crescere?
Condividilo: è nel racconto delle esperienze che la via si mantiene viva.
Ogni volta che una persona sceglie di attraversare questo passaggio, non solo cresce lei, ma cresce anche la comunità che la circonda.

 

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