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La capacità di attenzione emotiva del maestro verso l’allievo

La capacità di attenzione emotiva del maestro verso l’allievo

Nel frequentare le lezioni nel Dojo, non è possibile pensare a una persona che sta nel mondo scevra da qualsiasi dimensione psicologica che non influisca anche sul modo in cui vive la pratica.

La dimensione che apre le porte emotive, attraverso la chiave dell’intimità, è un prerequisito imprescindibile nel sentirsi appartenenti cuore, mente e corpo all’incontro di un padre o una madre per il figlio.
Nel frequentare le lezioni nel Dojo, non è possibile pensare a una persona che sta nel mondo scevra da qualsiasi dimensione psicologica che non influisca anche sul modo in cui vive la pratica. L’apertura emotiva nella pratica del karate, solitamente non prevede la comunicazione verbale di situazioni e vissuti che l’individuo stesso vive nei contesti di appartenenza, tuttavia, questo avviene in modo implico e inconsapevole, in quanto egli stesso, se pur è sollecitato a passare in rassegna i problemi che ha vissuto durante la giornata – ad esempio quello che gli hanno raccontato, quello che gli altri hanno detto, come si sentivano poco prima di praticare etc. –, deve prevedere uno sforzo cognitivo eseguito in silenzio e uno sgombro da quei pensieri che invadono il campo durante l’acquisizione di karate e del modo giusto richiesto dallo stare nella pratica.

Il Maestro deve creare il giusto spazio per far sentire l’allievo accolto e amato.

L’esempio dell’adulto, in grado di tollerare in modo compassionevole errori ed eventuali fallimenti, e la relazione, che porta il bambino a sentirsi al centro dei propri pensieri, accudito e amato, sono il fondamento della costruzione della base sicura che porterà il praticante a instaurare relazioni sane ed efficaci nelle successive fasi del proprio ciclo di vita. Chi ha sperimentato nel proprio percorso evolutivo un buon livello di relazione, prima con i genitori e poi con il gruppo dei pari, e ha “vissuto” adulti che lo hanno supportato nella sua “singolarità”, sarà un adulto competente, in grado di rilevare le proprie fragilità e di condividere le sofferenze, i disagi che lo hanno attraversato nel corso della sua vita. 

È evidente che dietro l’immagine del maestro c’è una persona con la sua storia che, qualora presenti tracce di una disgregazione della capacità di sperimentare e vivere le relazioni in modo sano, avrà una seria difficoltà nel diventare un “nido” e/o un “rifugio” in cui fare sentire protetti il singolo e il gruppo: una persona che costruisca il suo percorso relazionale intorno alla solitudine, crea una difficoltà nel sentire con fiducia le persone che gli stanno accanto e non sarà mai coinvolta veramente con loro.
Come figura di riferimento, tale modalità si ripercuote nel Dojo, creando relazioni di momenti condivisi, ma distanziati da una barriera invisibile che li tiene separati e che non permette reciprocamente di sentirsi al “sicuro” e di creare legami duraturi.

Un meccanismo disfunzionale in cui non scegliamo di stare nel Dojo / nel karate per una scelta d’amore…

Il Dojo deve essere uno spazio in cui si resta perché ci si sente accettati e confortati nella nostra diversità: quando viene negata tale funzione, diventa terreno di incontro e scontro in cui si è messi alla prova in modo continuativo, non come stimolo a migliorarsi, ma per dimostrare di essere “figli” degni, costruendo così un meccanismo disfunzionale in cui non scegliamo di stare nel Dojo / nel karate per una scelta d’amore, ma per il bisogno regolato dalla capacità dell’altro di farci sentirci accettati e di essere accolti nelle nostre esigenze.
Questo tipo di relazione, dunque, non fa altro che condurre l’allievo a essere ipercritico sulle proprie capacità, finendo per perdere la giusta motivazione nella strada che ha scelto di percorrere.
Una relazione comporta un processo di reciproco adattamento e di avvicinamento alla persona che ci vive a fianco rimodellando le proprie aspirazioni nella piena inclusione del suo mondo interno.
Nella pratica, il Maestro deve creare il giusto spazio per far sentire l’allievo accolto e amato: i primi tempi prevedono un lavoro “sull’altro e con l’altro”. Tale lavoro, apparentemente semplice, inizia a essere vissuto nella sua complessità se si entra in contatto con persone che hanno difficoltà a condividere lo stesso spazio e vivono le relazioni come una minaccia potenziale alla loro autonomia di pensiero e di sentimenti.

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