Se alleno i kihon per 20 minuti, il kumite per 20 minuti e i kata per 20 minuti, qual è il senso ultimo della mia pratica?
Il programma d’esame per 5° dan della defunta e compianta Federazione Sportiva Italiana Karate (che di sportivo aveva ben poco), alla voce “kumite” prevedeva, oltre al jiyu ippon kumite e al jiyu kumite, la difesa da coltello e bastone e la difesa da più avversari. Non so se negli otto anni di vita di quella federazione qualcuno abbia mai effettivamente sostenuto l’esame con quel programma, ma ricordo benissimo le dimostrazioni dei maestri giapponesi in quegli anni: la difesa personale e il tameshi-wari non mancavano mai e suscitavano l’entusiasmo del pubblico e probabilmente l’afflusso di nuovi iscritti nelle palestre di karate. Non credo che la difesa personale fosse solo uno “specchietto per allodole”, era anzi la motivazione principale per intraprendere lo studio di un’arte marziale negli anni 60 e 70.
… specialmente dagli anni 60 in poi, l’accento è stato posto sull’aspetto sportivo della pratica.
Con altrettanta sincerità devo dire che, in quasi cinquant’anni di pratica, nessuno mi ha mai insegnato a difendermi contro un avversario armato né mi ha messo in mano un coltello, fosse anche di plastica: forse si supponeva che l’autodifesa dovesse essere il campo di ricerca autonoma di una cintura nera ormai matura (4° dan e oltre).
Ho citato questo esempio per evidenziare che c’è un grave malinteso che condiziona il dibattito quando si parla di combattimento nel karate. Anche a causa della crescente influenza del karate sportivo negli ultimi decenni, la maggior parte dei praticanti intende il combattimento nel senso di kumite shiai e, nel caso dei “tradizionalisti”, giustamente obietta che vi sono altri aspetti maggiormente meritevoli di attenzione nella nostra disciplina. “Il jiyu kumite va bene per i ragazzotti e cosa diamine devi ancora dimostrare a 40 (50, 60…) anni?”
Di solito la discussione termina concordando sulle tre “k” ugualmente meritevoli di attenzione almeno nel nostro karate, vale a dire kihon, kata, kumite. Una conclusione ragionevole, che però contraddice il senso unitario della nostra disciplina e mi lascia personalmente insoddisfatto: se alleno i kihon per 20 minuti, il kumite per 20 minuti e i kata per 20 minuti, qual è il senso ultimo della mia pratica?
Di solito, quando mi trovo a un punto morto del ragionamento, risalgo alle fonti, in questo caso al primo maestro che ci abbia lasciato una chiara testimonianza scritta del proprio pensiero: Gichin Funakoshi. Nell’introduzione a Karate-do Kyohan (1973, p. 13), Funakoshi ci illustra 3 sfere di validità del karate. Parte dalla più elementare, l’allenamento atletico, spiegandoci come il karate costituisca una ginnastica completa che mantiene il suo valore anche se è praticata per un breve periodo di tempo in uno spazio limitato. Parole profetiche in tempi di confinamento in casa: “può essere praticato in un giardino, un soggiorno, un corridoio, in ogni momento e luogo in cui si senta il desiderio di praticare”. Ma è il secondo aspetto del karate (il terzo è la crescita spirituale) ad attirare la mia attenzione: l’autodifesa.
“Quasi tutte le creature viventi hanno qualche meccanismo per difendersi perché, dove questo aspetto sia incompleto, i più deboli sono annientati e periscono nella lotta feroce per la sopravvivenza. Le zanne della tigre e del leone, gli artigli dell’aquila e del falco, la puntura velenosa delle api e degli scorpioni, e le spine della rosa: tutti questi non sono forse strumenti per la difesa? Ma se i mammiferi di grado inferiore, gli uccelli, gli insetti e le piante hanno tutti simili strumenti, non dovrebbe essere preparato anche l’uomo, signore della creazione? […] Per proteggersi, si deve trovare un metodo che darà al debole il potere di difendersi contro avversari più forti. Il potere del karate è diventato celebre in questi tempi per la sua efficacia nel rompere delle tavole o frantumare delle pietre senza attrezzi, e non è un’esagerazione affermare che un uomo ben addestrato in questa forma di difesa può considerare che tutto il corpo sia un’arma di potenza offensiva terribilmente efficace […]. In breve, tra i vantaggi del karate come mezzi di autodifesa ci sono i seguenti: non sono necessarie le armi; gli anziani, i malati, le donne sono in grado di applicarlo; e una persona può proteggersi efficacemente anche con poca forza naturale. Questi punti si combinano per fare del karate una forma di autodifesa senza uguali”.
Il karate è molto diverso dagli altri sport, perché prima di tutto è stato creato come tecnica di autodifesa.
Chi scrive questo non è Oyama, l’ascetico uccisore dei tori, ma il mite Funakoshi!
Funakoshi che, fieramente contrario all’introduzione delle competizioni di kumite (come ha ricordato Nakayama in numerose interviste), insisteva invece sull’importanza e l’efficacia del karate come difesa personale.
Non si può obiettivamente dire che da allora la pratica si sia evoluta in questa direzione: specialmente dagli anni 60 in poi, l’accento è stato posto sull’aspetto sportivo della pratica nelle sue due specializzazioni: gare di kata e gare di kumite. La difesa personale è rimasta sullo sfondo e anche le dimostrazioni di autodifesa sono diventate sempre più rare. I programmi d’esame attuali delle varie federazioni, tra le quali anche la nostra FIKTA, non ne fanno menzione. Ciò nonostante, verso la metà degli anni 80, in un’intervista televisiva, il Maestro Hiroshi Shirai ribadiva ancora questo aspetto del karate:
“Il karate è molto diverso dagli altri sport, perché prima di tutto è stato creato come tecnica di autodifesa. Questo punto lo rende molto diverso dagli altri sport. Oggigiorno molte persone sono attratte dalle arti marziali perché possono migliorare sia fisicamente che spiritualmente.”
Sono passati altri 30 anni da questa intervista, si è costituita una federazione di karate tradizionale e nel frattempo il maestro Shirai ha creato il Goshindo, un sistema di combattimento interstile basato sul karate e focalizzato principalmente sull’efficacia, rinunciando anche alle tecniche spettacolari o acrobatiche non facilmente utilizzabili da chi ha dei limiti fisici dovuti all’età o alla costituzione fisica: cioè proprio le persone che dovrebbero essere maggiormente tutelate. Ma al di fuori della cerchia dei praticanti di Goshindo, non mi sembra che la ricerca dei maestri sia oggi maggiormente orientata verso l’autodifesa. Si potrebbe obiettare che lo studio approfondito dei bunkai va in questa direzione, dato che insegna a fronteggiare avversari che provengono da varie direzioni, con tecniche che vanno al di là delle quattro o cinque solitamente utilizzate in una competizione. Ma è una strada che richiede una lunga applicazione e quindi parrebbe meno adatta, ad esempio, del Krav Maga, per fornire uno strumento di immediata efficacia a chi più ne ha bisogno, ad esempio a una moglie abusata o a un ragazzo vittima di bullismo.
Che la questione sia complessa e tuttora almeno parzialmente irrisolta, lo testimonia un recentissimo intervento del maestro Perlati, al corso istruttori della Fikta, e una sua interlocuzione col maestro Benocci: “L’obiettivo della federazione è un karate globale. Il nostro kumite non deve prevedere solo un avversario di fronte a noi, come nelle regole della competizione sportiva, ma anche la difesa da più avversari, anche armati. Il nostro modo di portare una tecnica, apparentemente rigido, è giustificato dalla necessità di non essere squilibrato da qualcuno che potrebbe utilizzare metodi diversi per sopraffarci.”
Come ormai si sarà capito, questo articolo non offre una soluzione, ma evidenzia un problema che coesiste con la nostra disciplina fin dalla sua fondazione. Per non rimanere una petizione di principio, il karate come autodifesa deve avere una sua declinazione nei programmi di insegnamento e nella pratica quotidiana.
Se non si vuole tradire l’insegnamento del maestro Funakoshi e dei suoi migliori allievi, bisogna far capire che “combattere” non vuol dire (solamente) padroneggiare le tattiche del kumite e conquistarsi una finale di campionato, magari cercando di imitare le gesta dei campioni di karate sportivo. Là dove non ci sono i guantini, là dove non c’è un arbitro a tutelarti, là dove si annida il pericolo vero, per te stesso o per i tuoi cari: è proprio lì che viene messo alla prova il tuo karate. Può capitare una volta solo nella vita, può non capitare mai: ma per questa evenienza bisogna prepararsi, non illudersi di essere magicamente “pronti”.
Il karate come autodifesa deve avere una sua declinazione nei programmi di insegnamento e nella pratica quotidiana.
Per ottenere questo obiettivo, a mio avviso, non è sufficiente cimentarsi in una forma di kumite più “ruvida” di quella prevista dal regolamento della EKF: certo la ricerca del todome è essenziale, ma le modalità dell’incontro, la distanza dall’avversario, la ritualizzazione del combattimento, anche nelle gare della Jka e dell’Eska, ci allontanano dalla realtà dell’autodifesa.
Nella vita reale non sappiamo quante persone ci aggrediranno, con quali armi, da quale direzione: ci serve l’allenamento all’improvvisazione (sembra una contraddizione, ma non lo è) e la pratica della corta distanza, utilizzando tutte le armi naturali del corpo, nella consapevolezza che non ci verrà concessa una seconda possibilità. Non mi sembra che queste modalità di combattimento rientrino nella pratica abituale di una lezione di karate tradizionale, ma se vogliamo parlare seriamente di “karate globale” (per citare il maestro Perlati) forse dobbiamo ricominciare a pensarci.