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Tradizione

Tradizione

Una tradizione può “invecchiare”? I suoi contenuti, oggi, quale spazio trovano nella pratica del KarateDo?

Il termine “tradizione” evoca rimandi attinenti al tempo, nel corso del quale si è prodotta e che spesso viene intesa quale “passato”, quindi andata, finita in quel tempo in cui si è maturata o, al limite, con qualche riflesso nel presente. Questa considerazione induce una domanda: una tradizione può invecchiare o, meglio, i suoi contenuti trovano spazio nella contemporaneità e, nel nostro caso, nella pratica tradizionale del karate?
Un punto importante che provo a chiarire riguarda il travisamento parziale, ma sostanziale, che traduce nelle lingue occidentali il termine karate dō in modo  “dialettizzato”, semplificato, e assimilato entro la galassia delle così dette arti marziali. Circoscrivendo il portato di qualsiasi –dō, vuoi all’arte, vuoi al marziale, si tralascia od occulta in qualche maniera la componente filosofico-religiosa che è intrinseca al termine –dō, e frutto, assieme al termine karate, della geniale elaborazione linguistica di Funakoshi Gichin (precedentemente si indicavano quali: Naha te, Tō de, Shuri te ecc).

…quanto la tradizione che ingenera il percorrere una Via realizzativa intende preservare nel tempo, ha componenti comuni alla ricerca artistica.

Restringere i significati che afferiscono al termine – in un ambito, anziché in un altro, ingenera un travisamento di quanto l’educazione e lo studio della Via si premurano di proteggere, promuovere, trasmettere. Quindi, quanto la tradizione che ingenera il percorrere una Via realizzativa intende preservare nel tempo, ha componenti comuni alla ricerca artistica e sviluppa, o può potenzialmente strutturare, abilità riferibili alla marzialità. Tuttavia, almeno sullo stesso piano lo studio, lo shugyō, prefigura uno sviluppo intellettuale e spirituale altrettanto profondi.

Oggi, la componente agonistica preponderante nella pratica di ogni federazione, livella e circoscrive le competenze stabilite dalla tradizione all’unico piano utile per i suoi fini, ottenere visibilità mediatica, ottenere finanziamenti pubblici e privati, ottenere risultati agonistici.
Questo status determina, ad esempio, fenomeni di questo tipo: ero nella palestra di una federazione sportiva di karate e parlavo con l’insegnante che conosco da tempo, si stava allenando una campionessa di kata che provava e riprovava, chiesi al maestro se poteva chiedere alla ragazza di mostrarmi un kata Heian a sua scelta, risposta della ragazza: non me li ricordo… Chiaro no? Si specializzano in due o tre cose da portare in gara, tutto lì il loro “karate sport”. Se il piano di pratica si riduce a quello (ed è già così in ambito sportivo), anche un ballerino fisicamente dotato come Roberto Bolle, che si esercita sei ore al giorno, se poi lo mettete a praticare due o tre kata per qualche mese e per qualche ora al giorno, potrebbe vincere titoli a nastro! Sarebbe karate?

Quindi, praticare in modo tradizionale, cosa sottende?
Cosa vuole preservare e realizzare la tradizione?
Può invecchiare una tradizione? Se sì, invecchia rispetto a che cosa? Cos’è che invecchia? Può invecchiare l’eterno?
La nostra tradizione ha secoli di storia, di pratica, di studio profondo, muovere in senso evolutivo questo corpus di pratica richiede personalità con una elevatissima maestria. In Italia, di maestri in grado di elaborare una tradizione come quella Shōtōkan, c’è solo il Maestro Shirai, è lui il faro e non solo tecnico ovviamente.
La realizzazione di una tradizione come quella del karate, con tutte le implicazioni filosofico-religiose che vi afferiscono, è un processo lento e risponde solo se sollecitata con i criteri corretti, diversamente si resta in superficie o si tirano dei bei calci e dei pugni, che sono solo il mezzo. Mentre il fine non può essere solo quello, va oltre, più nel profondo, perché questa è la natura dell’essere, è il senso del suo esserci, quindi, non può fermarsi ai calci e pugni, ma vuole naturalmente andare oltre.

La tradizione è ontologicamente mushotoku (oltre qualsiasi profitto), essa opera per l’essere, quello eterno.

Chi confonde la natura dell’essere, o la circoscrive e restringe verso obiettivi utilitaristici, prima o poi dovrà fare i conti con il reale senso della vita che non può ridursi a delle gare agonistiche, che non si intende svalutare, ma collocare nello spazio opportuno e fuori da “logiche di mercato”.
Il tempo, quello vero, parla solo il linguaggio della tradizione, il resto è mercato. E il mercato non è interessante e non può essere il riferimento del nostro percorso, esso segue le mode, l’aleatorietà del superficiale e ha come stella polare il guadagno, il profitto, l’avere.
La tradizione è ontologicamente mushotoku (oltre qualsiasi profitto), essa opera per l’essere, quello eterno, e l’essere deve preservare l’eterno che è, e che è contenuto nella tradizione.

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