“Io vorrei che tutti i praticanti comprendessero che tutto ciò che esiste nell’ambito della FIKTA e del nostro karate è scaturito da un grande sogno del Maestro Shirai.”
(In KarateDo n. 30 apr-mag-giu 2013)
Maestro Guidetti, ci parli un po’ di sé, della sua famiglia e della sua professione.
Sono nato il 20 dicembre del 1953 a Reggio Emilia, dove vivo attualmente con la mia compagna Loretta Gabrielli, anche lei maestra di karate della FIKTA. Ho due figli: Francesco di 32 anni e Giovanni di 24, entrambi praticanti di karate e atleti.
Non sono mai stato un bravo studente e non ho mai amato particolarmente lo studio, ho abbandonato la scuola alle medie e ho subito iniziato a lavorare nell’attività di mia madre. Lei era fruttivendola, aveva un banco di frutta e verdura nella piazzetta del centro città e io, a dire di mia mamma, ero un discreto fruttivendolo. Questo lavoro mi piaceva molto, apprezzavo soprattutto la libertà della piazza e il contatto con le persone. Le mie mansioni erano da tipico garzone e dovevo anche urlare i nomi della frutta e degli ortaggi che vendevamo, tipica strategia di piazza per attirare le persone vicino al banchetto ed esortarle, con un po’ di stratagemmi, all’acquisto della nostra merce. All’inizio, data la mia timidezza, è stato piuttosto difficile, ma in seguito è diventato divertente, mi sentivo a mio agio, un bravo fruttivendolo! Per un paio di anni ho continuato a lavorare con mia madre, poi ho fatto il commesso, prima in un grande negozio, l’odierno supermercato, poi in una boutique di classe di abbigliamento maschile. Non ero però molto in linea con questo tipo di vestiti: portavo jeans stracciati, maglioni grandi, scarpe da ginnastica e avevo i capelli lunghi oltre le spalle. Probabilmente ero simpatico al padrone ed ero accettato, ma ogni giorno venivo invitato a cambiare look.
Mi chiedi che professione svolgo ora… non mi piace pensare che il karate sia il mio lavoro o la mia professione, anche perché non l’ho mai considerato tale. Come si fa a ritenere il “mio” karate un lavoro? Come può essere una professione ciò che ami, ciò che faresti sempre, ciò che ti appassiona e ti affascina, ti diverte e ti entusiasma, ti ha messo di fronte a te stesso e ai tuoi limiti e ti ha insegnato, con l’aiuto di una guida, a capirli e superarli? Al di là di questo, in ogni caso, rimanendo nel tema della sopravvivenza economica, sicuramente la palestra è stata ed è tuttora la fonte del mio sostentamento.
Quando ha iniziato la pratica del karate?
Ho iniziato la pratica del karate nel 1972.
Come si fa a ritenere il “mio” karate un lavoro?
Che cosa l’ha affascinata ed entusiasmata maggiormente di quest’arte marziale, all’inizio della sua pratica?
In verità non avevo nessuna intenzione di iniziare la pratica del karate, si è trattato più che altro di un desiderio di mio fratello maggiore il quale, dopo aver assistito a una dimostrazione di Tameshiwari, ne rimase impressionato e mi trascinò con lui in palestra a provare. Ciò che personalmente mi affascinò ed entusiasmò maggiormente fu vedere il Maestro Baccaro tirare calci con una facilità, una velocità e, al tempo stesso, un controllo impressionanti: in quel momento decisi che avrei voluto imparare anch’io e fu così che m’iscrissi al corso di karate.
Chi è stato il suo primo Maestro?
Il mio primo Maestro è stato proprio Roberto Baccaro: un maestro di Bologna che due volte alla settimana insegnava a Modena, dove mi recavo insieme a mio fratello per frequentare le lezioni. Ricordo che all’epoca m’infastidiva molto il sistema rigido e il continuo obbligo di fare ciò che il maestro diceva: a quel tempo ero un individuo piuttosto anarchico e rifiutavo qualsiasi imposizione, a prescindere. L’obbligatorietà mi dava parecchio fastidio e, a essere sincero, solo nel karate riuscivo a seguire le regole in silenzio. In breve tempo, tuttavia, il mio atteggiamento di ostilità cambiò, l’aspetto educativo del karate mi affascinava sempre di più e mi coinvolgeva pienamente nella pratica. Il M° Baccaro, inoltre, aveva un grande carisma e oltre ad essere stato per me un ottimo maestro – colui che diede inizio a tutte le mie ricerche interiori – fu per merito suo che iniziai ad allenarmi anche con il M° Shirai.
Quando ha incontrato per la prima volta il Maestro Shirai? Che cosa si ricorda oggi di quel momento e dei suoi primi allenamenti?
La prima volta che vidi il Maestro Shirai da vicino è stata a una gara a Pesaro, nel 1973: ricordo che il Maestro, mentre usciva dal palazzetto, mi disse che avevo fatto bene. In seguito, iniziai ad allenarmi da lui a Milano, dove mi recavo insieme al M° Baccaro. La sensazione che provai la prima volta è stata quella di entrare in un film: fino a poco prima ero stato uno spettatore e a un tratto, anche se solamente come una comparsa, facevo parte di quel film! Ti garantisco che è stato incredibile. Lì c’erano tutti i “mostri” del karate italiano. Era davvero imbarazzante, ma la verità è che avevo paura: tutti erano forti, anzi, fortissimi e io non ero nessuno, e pensavo “…Ma cosa ci faccio qui?”. Per fortuna c’era con me il mio maestro che mi diceva di non preoccuparmi e di avere pazienza e costanza, perché prima o poi avrei capito. La cosa importante, in quel momento, era essere lì.
Quando e perché ha iniziato a insegnare il karate?
Abitavo in un quartiere povero, dove le persone non avevano grandi possibilità economiche, quando i miei amici vennero a sapere che stavo frequentando un corso di karate, erano tutti ansiosi di provare. Fu così che io e mio fratello, dopo circa due mesi di pratica a Modena, superato l’esame di cintura gialla, ci siamo organizzati per allenarci insieme agli amici. È una cosa che fa sorridere, ma iniziai proprio da quel momento a insegnare ed è da quel momento che il karate iniziò a Reggio Emilia. Tra gli amici più noti, c’erano il M° Paolo Lazzarini e il M° Maurizio Munari.
Quando ha conseguito le qualifiche di istruttore e di maestro?
Ho conseguito la qualifica di Istruttore il 22 agosto del 1978 e la qualifica di Maestro nel dicembre del 1987.
Quali aspetti la gratificano e la entusiasmano maggiormente nell’insegnamento del karate e nella trasmissione dei suoi principi educativi?
È veramente gratificante vedere le persone che dopo una giornata di lavoro e di fatica hanno la voglia e l’entusiasmo di venire in palestra ad allenarsi da te e abbiano fiducia in ciò che fai fare loro, ascoltando con interesse ciò che dici.
Che cosa ci racconta, in particolare, della sua palestra e dei suoi allievi?
Credo che la mia palestra sia come tutte le altre palestre che seguono le indicazioni della nostra Federazione e del M° Shirai. I miei allievi hanno molta pazienza e, insieme, riusciamo a condividere la pratica del karate sempre con molta energia.
Ci parli della sua esperienza agonistica, quando ha iniziato a gareggiare? Che cosa l’ha spinta e motivata alla pratica dell’agonismo?
Iniziai l’agonismo sin da subito, nel 1972, partecipando a tornei e gare organizzate a livello locale, regionale e nazionale. La mia esperienza agonistica non fu di lunga durata e, soprattutto, fu modesta, per me l’agonismo non era altro che fare karate con intorno gli arbitri e il pubblico. Tuttavia, ciò che mi ha insegnato l’agonismo è quello che insegna o dovrebbe insegnare a tutti coloro che lo praticano: sacrificio, superamento delle difficoltà, ricerca di un equilibrio sia nei momenti di gioia sia in quelli di amarezza e, soprattutto, la capacità di rispetto a 360°.
Quali sono stati i risultati più importanti della sua carriera agonistica? Quali i momenti più belli e indelebili che l’esperienza agonistica le ha lasciato?
Non ho avuto risultati agonistici così importanti da essere menzionati, ma ho avuto sicuramente risultati agonistici che hanno reso importante il mio pensiero riguardo l’agonismo e indelebile ciò che per me hanno significato. Posso dire, inoltre, di non averne avuti pochi di momenti importanti… ma molti, tutti, particolari e ognuno unico.
Ritiene che l’agonismo sia un’esperienza fondamentale ed essenziale nel percorso di un giovane karateka?
Ritengo che, per un giovane, l’agonismo possa essere motivo di crescita, ma non credo che sia fondamentale o indispensabile nel suo percorso evolutivo. L’agonismo è un mezzo in più a disposizione di un praticante, stimola la sua personalità, gli permette di scaricare le sue energie e incanalarle in azioni controllate e di grande vigore, lo mette in competizione con gli altri e con se stesso, con lo scopo di auto migliorarsi. Inoltre, nell’attività agonistica esistono le regole, i regolamenti ai quali ci si deve attenere scrupolosamente se si vuole rimanere in gioco e questo è un metodo di educazione. In ogni caso penso che ogni disciplina sportiva, nella sua parte agonistica, possa educare il giovane ai principi base della vita e dello stare insieme agli altri individui, costituendo una tappa importante del suo percorso evolutivo.
All’epoca m’infastidiva molto il sistema rigido e il continuo obbligo di fare ciò che il maestro diceva.
Maestro Guidetti, che cosa significa per lei avere rivestito la carica di allenatore della squadra nazionale E.S.K.A. e della squadra nazionale F.I.K.T.A.?
Prima di tutto una grande responsabilità. Inoltre, ha avuto un grande significato il fatto stesso che le dirigenze dell’I.S.I. e della F.I.K.T.A. mi abbiano scelto, riponendo in me la loro fiducia per svolgere questi incarichi: ciò mi ha onorato e mi onora tuttora. Per natura non sono ambizioso e ricoprire cariche importanti, per me, significa innanzitutto dimostrare “sempre”, non solo durante i raduni o i campionati, di essere degni di quelle cariche, dando esempio agli altri attraverso la pratica e il comportamento.
Come si svolgono gli allenamenti, durante i raduni della nazionale di kumite F.I.K.T.A.? Quale metodo di allenamento utilizza e che tipo di preparazione atletica svolge?
La base dell’allenamento è scrupolosamente tecnica: personalmente tengo moltissimo che gli atleti abbiano un alto livello tecnico di base, nonostante entrino nel gruppo della Nazionale già preparatissimi. Insisto molto sulla base tecnica, perché ritengo indispensabile che la scuola del M° Shirai sia riconoscibile ovunque: non solo per i risultati portati dalle medaglie che si possono vincere, ma anche per l’aspetto tecnico di ogni singolo atleta. Il mio obiettivo è che gli atleti prendano coscienza dell’importanza di essere rappresentanti della Squadra Nazionale Italiana e che facciano la loro parte a pieno, senza tralasciare nulla: dal saluto, alla medaglia, per me, tutto è importante. Non utilizzo l’allenamento come un fine, ma come uno dei mezzi per consolidare la forza dei nostri atleti, nel rappresentare nel mondo la nostra Federazione. Ho dei collaboratori pregevoli, i Maestri Alberto Bacchi e Carlo Casarini che mi consigliano e mi aiutano a sviluppare la lezione in vista di ogni raduno. Durante i raduni, come accennavo prima, dedico una parte di tempo all’esecuzione del kihon (spesso ispirato ai programmi d’esame) e un altro step di tempo alle tecniche libere preferite, per stimolare gli atleti e la loro personalità, chiaramente il lavoro è scrupolosamente in linea con il particolare regolamento Internazionale dell’I.T.K.F. Una parte di tempo la dedichiamo esclusivamente alla gara e da quest’anno ho introdotto una parte di lavoro dedicata alla preparazione atletica, nella speranza che poi i ragazzi la sviluppino anche come lavoro di routine nelle loro sedute di allenamento.
Durante i raduni della Nazionale, quali elementi riescono a fare la differenza e a mantenere sempre vivo l’entusiasmo degli atleti, nonostante la tensione e la fatica?
Probabilmente questa è una domanda che dovremmo rivolgere ai diretti interessati, cioè agli atleti, ma per quanto riguarda la mia esperienza, posso dire che il loro atteggiamento può determinare la loro futura convocazione ai Campionati. Non ci dobbiamo dimenticare, infatti, che questi atleti sono i migliori del circuito Nazionale ed è già insito in ognuno di loro il concetto di mantenere alti gli standard di entusiasmo e motivazione. È chiaro che sentirsi membri di un gruppo così importante aumenta la motivazione, inoltre, l’affiatamento tra gli atleti e la fiducia riposta nella figura dell’allenatore o del coach, insieme danno vita a un’alchimia che non può che produrre energia pulita, fresca e vitale che arriva a fare la differenza.
Quali sono le maggiori difficoltà che riscontra o ha riscontrato nel rivestire il suo ruolo di allenatore Nazionale? Quali sono, invece, gli aspetti più gratificanti?
Parlo della Squadra Nazionale FIKTA. Per un periodo sono stato all’interno della Squadra Nazionale come collaboratore, con i Maestri Carlo Bianchi, Orio Ghedini e Alberto Bacchi, sotto la diretta supervisione del Maestro Naito. In quel periodo ho potuto capire importanti meccanismi che sicuramente mi hanno aiutato quando ho avuto ufficialmente l’incarico di allenatore di questa Nazionale. Inizialmente ero “uno” messo lì e gli atleti avrebbero dovuto fare quello che dicevo loro. Ti garantisco che per me non è stato facile, dal punto di vista psicologico, essere al posto del M° Naito e dell’amico Carlo Bianchi: è da provare! Capivo anche gli atleti, la loro difficoltà nel cambiamento e – dal mio punto di vista – non certo in meglio. Tuttavia, a me piace molto stare con i ragazzi e quasi da subito, tutti si sono accorti che non volevo nient’altro che fare karate insieme a loro e che questo era il nostro comune punto d’incontro. Abbiamo lavorato duramente, ma insieme, con entusiasmo, volontà, tanto impegno e tuttora continuiamo. I ragazzi sono stati fantastici, mi hanno accolto sin dall’inizio con grande rispetto e hanno seguito sempre, con convinzione e serietà, gli allenamenti che ho proposto loro: in questo modo abbiamo raggiunto un feeling importante. Oggi devo dire che sicuramente hanno dato molto di più loro a me rispetto a ciò che io ho potuto dare loro e di questo li ringrazio di cuore.
Ha un sogno nel cassetto?
Non ho nessun sogno particolare. Ritengo di essere una persona molto fortunata, perciò è già un sogno per me che la mia vita continui così, ma se proprio devo avere un sogno da tenere nel cassetto come allenatore della Squadra Nazionale, vorrei che ogni atleta che la compone potesse godere della possibilità di partecipare, almeno una volta nella sua vita di atleta, a un Campionato Internazionale e vincere una medaglia d’oro, salire sul podio più alto e provare emozione ascoltando l’inno italiano suonato in suo onore.
È veramente gratificante vedere le persone che dopo una giornata di lavoro e di fatica hanno la voglia e l’entusiasmo di venire in palestra ad allenarsi da te.
C’è un argomento particolare di cui le piacerebbe parlare o un semplice pensiero che vorrebbe condividere con tutti i praticanti di karate della FIKTA, adulti, bambini, amatori, agonisti, istruttori e maestri?
Certo, si ricollega all’importanza dei sogni e alla precedente domanda. Vorrei che tutti i praticanti comprendessero che tutto ciò che esiste nell’ambito della nostra Federazione e del nostro karate è scaturito da un grande sogno del Maestro Shirai: con la sua determinazione, il suo instancabile lavoro e l’aiuto di un gruppo di uomini, suoi fedeli allievi, questo sogno è riuscito a materializzarsi. Se continueremo a praticare il karate seriamente come il Maestro ci insegna, con entusiasmo e sincerità, tutto questo potrà rimanere realtà.
Quali persone vorrebbe sentitamente ringraziare e ricordare in questo momento?
Sinceramente avrei bisogno che la rivista KARATE-DO mi concedesse un’edizione speciale solo per menzionare tutte le persone alle quali sono legato emotivamente e sentimentalmente e che vorrei ringraziare e ricordare! Anche perché in quarant’anni di pratica, ho avuto il piacere di vivere tantissimi e stupendi rapporti con moltissime persone. Il primo profondo ringraziamento è per il M° Hiroshi Shirai, per tutto quello che mi ha insegnato e che spero di avere appreso nel modo giusto, per poterlo trasmettere anche agli altri.
E poi ringrazio… TUTTI!