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Perché “The Karate Kid” è il miglior film di arti marziali per non marzialisti

Perché “The Karate Kid” è il miglior film di arti marziali per non marzialisti

Il film “di genere” che più di tutti ha suggestionato anche l’emisfero “non marziale”, entrando direttamente nelle influenze pop per vari motivi.

Volenti o nolenti, “The Karate Kid” è il film di arti marziali più importante di tutti i tempi. Sì, avete letto bene proprio quel Karate Kid che arrivò da noi con il titolo “Per Vincere Domani – The Karate Kid”.
Diciamolo subito, a scanso di equivoci, The Karate Kid è un film che non gode di buona fama tra i praticanti di arti marziali e non mi sento proprio di biasimarli. In primis perché, a discapito del titolo, di Karate ce n’è ben poco o meglio nulla. Secondo, perché mette in mostra una certa facilità nel raggiungere il più alto grado di pratica – Daniel ci mette sì e no un mese a sfoggiare la sua cintura nera –. Terzo, perché mostra cose pacchiane e del tutto fuori da ogni logica. Allora, adesso vi starete chiedendo: perché ho scritto la frase di apertura dell’articolo? Semplice, perché è stato il film “di genere” che più di tutti ha suggestionato anche l’emisfero “non marziale” – tra cui il sottoscritto –, entrando direttamente nelle influenze pop per vari motivi. Vediamone due insieme.

A discapito del titolo, di Karate ce n’è ben poco o meglio nulla.

Rappresentava persone “normali” che iniziavano a praticare arti marziali.
La trama del film è del tutto particolare. Nessuno viene ucciso dal “cattivo”. Nessuno deve salvare la ragazza rapita e soprattutto nessuno morirà scatenando così la sete di vendetta. The Karate Kid è un drama – per dirlo all’americana – scolastico, con dinamiche legate ai sentimenti di adolescenti come l’amore, le ingiustizie e il tentativo di individuare una figura di riferimento sia essa positiva o negativa.
Probabilmente, a metà degli anni Ottanta, fu un po’ sorprendente dato che il pubblico era abituato a ben altro. Chuck Norris, Steven Seagal e Jean Claude Van Damme erano i moderni Bruce Lee – anche se nei film di Lee c’era una vena sociale importante – e non erano certo abituati a interpretare dei ragazzotti emigrati dal New Jersey alla California e alle prese con i bulli a scuola. Soprattutto non pesavano 57 kg con i vestiti bagnati…
Inoltre, erano tutti esperti nelle loro discipline, a differenza di Ralph Macchio che non aveva nessun tipo di formazione marziale. I presupposti non erano dei migliori, tuttavia la produzione, con un’abile mossa commerciale, mantenne nel titolo il riferimento al Karate giocando un azzardo che colpì nel segno. Infatti, la spinta vera e propria della trama del film è il percorso di maturazione e riscatto del personaggio principale, tale Daniel LaRusso che, una volta intrapresa la strada dell’apprendimento arriva a un livello tale da permettersi di sconfiggere il “nemico” che lo bullizzava, ma soprattutto arrivare al riscatto personale senza strafare.
Forse, proprio questi elementi hanno reso “normali” i personaggi del film e questa normalizzazione – in senso positivo – ha permesso a tanti ragazzi di avvicinarsi davvero alla pratica delle arti marziali.

Mantenne nel titolo il riferimento al Karate giocando un azzardo che colpì nel segno.

Personaggi, costumi e storia dell’America.
Come detto, siamo nel 1984, anno particolare per la storia dell’America. Dall’elezione del presidente Ronald Reagan, conservatore repubblicano ex-attore di Hollywood, il cinema negli USA assume un altro aspetto sociale: quello di cassa di risonanza per il risveglio del patriottismo. Dalla fine della guerra in Vietnam e la conseguente crisi sociale dei reduci, mai l’”americanità” della popolazione era stata così bassa. Serviva una svolta e il cinema rappresentava uno dei migliori veicoli di diffusione. Fu così che il “povero” Rocky Balboa, immigrato di Philadelphia che combatte per il riscatto si trasforma nel Rocky Balboa “Made in USA” di Rocky IV, con tanto di missione: sconfiggere il russo Ivan Drago, di conseguenza il comunismo, e vendicare l’amico Apollo Creed ucciso senza scrupoli sul ring. Sempre Stallone vestì anche i panni di John Rambo, ma non più quelli del reietto reduce dal Vietnam che fugge dalle angherie dello sceriffo Teasle. Il nuovo Rambo è armato della migliore mitragliatrice e parte per l’Afghanistan per combattere i sovietici invasori. 

Ma quanti di questi personaggi avevano un vero e proprio appeal sugli adolescenti? Pochi, dato che si parlava di un mondo di adulti. Ecco allora che serviva un Daniel, di cui abbiamo già un po’ parlato, un Signor Miyagi, un John Kreese e un Johnny Lawrence che, loro malgrado, rappresentano l’altra America, quella di tutti i giorni appunto.
Partiamo dal Signor Miyagi, che in Italia si vanta del titolo di “maestro”, mentre nella versione originale non se ne fa mai menzione. Il simpatico vecchietto che spara massime a profusione è un ex-soldato dell’Esercito Imperiale che, dopo la sconfitta di Okinawa e le bombe su Hiroshima e Nagasaki, s’imbarca per l’America in cerca di riscatto. Tra preconcetti e razzismo – è opportuno sottolineare che fino all’inizio della crisi con il Vietnam, erano i giapponesi i cosiddetti “Charlie” o “Musi gialli” – l’uomo trova la sua dimensione dopo una vita, anche personale, non facile. Non sa nulla di Karate se non forse che ha lo stesso cognome di Chōjun Miyagi fondatore dello stile Goju Ryu. Infatti, nel film il ruolo di Miyagi non è quello di maestro, ma di “guida”.
Dal momento in cui il giovane Daniel conosce il giapponese, questi assume sempre di più il ruolo di padre… quello che il ragazzo non ha mai avuto. Mantenendo nel titolo la parola Karate è quasi scontato che sia stato scelto un giapponese, ma la cosa non è proprio così banale. In quel preciso momento storico il Giappone non era più lo sconfitto del 1945, ma un importante partner commerciale per il nuovo corso dell’economia americana. Rispetto al passato, si è cancellato tutto quello che era negativo ed ecco che la sua saggezza, le sue intuizioni e la sua consapevolezza sono elementi positivi per Daniel. (Tipico, lo fecero anche con gli indiani d’America dopo il 1968 e funzionò, e fu così anche questa volta).

La spinta vera e propria della trama del film è il percorso di maturazione e riscatto del personaggio principale.

Passiamo poi al cattivo: John Kreese, di professione “sensei” – l’ho messo tra virgolette per non offendere nessuno – del dojo Cobra Kai, antipatico come pochi e presuntuoso come la maggior parte degli eroi muscolosi e saccenti. Anche il suo personaggio non c’entra nulla con le arti marziali e la sua violenza non ha fatto altro che alimentare stereotipi sbagliati. In realtà, lui rappresenta quella fetta di popolazione che la nuova politica americana voleva dipingere come border line. In poche parole, Kreese era il reduce dal Vietnam incapace di riadattarsi alla vita di tutti i giorni e che quindi scaricava (attenzione!) le sue frustrazioni personali sui suoi allievi, insegnando a “spaccare le gambe” o cose simili. Insomma, era il John Rambo che ancora combatteva contro lo sceriffo e non contro i sovietici. 

A questo punto, com’è ovvio che sia, mentre Daniel apprende tutto quanto è positivo da Miyagi e lo mette a servizio della propria vita, il suo alter ego Johnny assorbe il dark side of the moon del suo “maestro”, con tutto il suo carico di rabbia repressa. Entrambi sono figli della modernità, vengono da famiglie divorziate – a metà degli anni Ottanta la percentuale di famiglie divorziate in America subì un’impennata impressionante per via di molteplici fattori –, sono stati abbandonati dai rispettivi padri ed entrambi lottano contro l’ingiustizia e, guarda caso, rappresentano quello che in quel momento l’America voleva che rappresentassero. In pratica, Daniel è il nuovo sogno americano, non più casa a schiera con staccionata bianca, auto luccicante nel vialetto e conto in banca, ma il giovanotto a cui l’America ha donato un futuro e Johnny il violento e frustrato figlio della classe media incapace di riscrivere la propria storia.
Ecco perché The Karate Kid è il miglio film di arti marziali per non marzialisti. E non odiatemi per aver scritto un articolo che non parla di Karate, ma dato che la mia rubrica vuole essere una piccola finestra sul mondo pop, mi piaceva condividere con voi questa riflessione che mi frulla in testa da tanto tempo.  

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