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“My generation”

“My generation”

Quando Shirai, Kase, Enoeda e Kanazawa arrivarono in Europa negli anni 60, quale musica avranno sentito uscire dai jukeboxe?

Il clima di un’epoca è spesso interconnesso alla musica di quel tempo ed essa diventa un mezzo che consente alla nostra memoria di far riaffiorare ricordi, immagini, profumi… Altresì, se non si sono vissuti quegli anni, l’ascolto di certe canzoni o melodie ci permette di approcciare più facilmente lo spirito di quel determinato periodo.
Ad esempio, gli anni Sessanta rappresentano una data importante per il karate europeo, ma quali erano le atmosfere musicali che accompagnavano i primi praticanti di allora? Curiosi di rinfrescare la nostra memoria e sicuri di fare cosa gradita ai numerosi appassionati e “praticanti” di musica che ci leggono, la redazione di KarateDo Magazine si è affidata alla penna di un blogger musicale per ricordare alcuni nomi presenti nelle hit di allora e lo spirito che le animava. Buon ascolto!

… quattro atleti giapponesi, all’epoca sconosciuti, giunsero in Europa per tentare di seminare la loro idea rivoluzionaria

A metà degli anni Sessanta, l’Europa era un vero e proprio vulcano in continua eruzione. Vent’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale le nuove generazioni erano decise a non ripetere gli errori dei loro padri e, quindi, in quasi tutto il Vecchio Continente sarebbe germogliato il seme di quel pensiero libero che qualche anno dopo darà origine alla rivoluzione sociale vera e propria, quella del 1968.
Uno dei fertilizzanti che alimentò la crescita di quel seme fu senz’ombra di dubbio l’arte o, meglio, le arti. Tra queste figurava la musica, da sempre “testa di ponte” di tutte le rivoluzioni sociali, non perché sia meglio o peggio del cinema o della letteratura, ma per via della sua tradizione popolare, della sua immediatezza e della sua facilità di comprensione. 

Nonostante la cultura collettiva fosse ancora fortemente di stampo tradizionalista, a metà degli anni Sessanta in Europa si affermò un nuovo tipo di musica pop che influenzò molto le nuove generazioni grazie all’impegno sociale dei cantanti e dei compositori. Impegno che diventò un must del nuovo pensiero libero, andando spesso contro quello che era l’”altro mondo”, quello intransigente, quello che voleva lasciare tutto com’era.
La musica pop europea di quegli anni, nello specifico quelli che vanno dal 1960 al 1966, fu un vero e proprio serbatoio di idee rivoluzionarie e un fiume di manifesti sociali; un fiume che tentava di rompere gli argini. Dai Beatles, ai Rolling Stones, passando per i Kinks, i Pink Floyd, i Cream, gli Animals senza dimenticare i nostrani Fabrizio De André, i Nomadi, Francesco Guccini e tutta quella schiera di nomi che ben conosciamo o che sono rimasti nell’ombra. Tutti questi personaggi diedero una bella spallata alla tradizione, creando un mondo alternativo, osteggiato dalle istituzioni, ma profondamente amato dalle popolazioni. 

Il cambiamento iniziò così, quando le “canzonette da grammofono” vennero soppiantate da testi più profondi e identificativi che più tardi verranno addirittura definiti generazionali. Insomma, non ci sarebbe stato il 1968 se Eric Burdon non avesse cantato “It’s my life and I’ll do what I want / È la mia vita e farò quello che voglio” (It’s My Life, The Animals, CBS).
The Animals non sono una delle band più famose degli anni Sessanta, tuttavia è stata tra quelle più rivoluzionarie. Nata a Newcastle nel 1962 per volere di Eric Burdon, la band salì alla ribalta delle scene grazie a una loro personale versione del classico folk americano “The House Of The Rising Sun”.
Stesso discorso vale per i The Who che nel medesimo anno buttarono sulla scena la leggendaria My Generation una canzone che ancora oggi impressiona per la sua attualità.

Però, nessuno dei due singoli riscosse un successo di massa, perché in quel momento i Beatles erano appena tornati dalla Germania, quella Ovest, dove si erano fatti le ossa ad Amburgo.
La Germania di quegli anni non era propriamente un luogo semplice: divisa in due Stati ed epicentro della Guerra Fredda, nonché delle divisioni di due modi di pensare, quello capitalista e quello sovietico. I “quattro scarafaggi” di Liverpool riuscirono a portare in Inghilterra prima, in Europa poi e, infine, nel mondo, un po’ di quello spirito di libertà che i giovani tedeschi, “figli del Muro”, covavano nel fondo dei propri cuori: un qualcosa che non era né troppo socialista, né troppo capitalista. Un pensiero di libertà e, in qualche modo, di leggerezza; un po’ quello che troviamo nei testi dei Fab Four del primo periodo.
Senza voler denigrare l’enorme successo dei Beatles, direi che fino alla rivoluzione Rubber Soul è palese il tentativo di andare a colpire nel segno, cioè il successo commerciale e mediatico, senza troppo sbilanciarsi verso l’impegno sociale o politico.

I due semi (della musica e del karate) hanno delle affinità tra loro e, soprattutto, si sono alimentati dallo stesso humus: quello della libertà di pensiero…

Questa era una parte del panorama musicale del 1965, anno in cui altre quattro giovani – dei giapponesi allora sconosciuti – giunsero in Europa per tentare di seminare la loro idea rivoluzionaria: quella di divulgare il karate Shotokan in un continente dove regnava l’ortodossia in campo sportivo e nelle arti.
Stiamo parlando dei Maestri Hiroshi Shirai, Taiji Kase, Keinosuke Enoeda e Hirokazu Kanazawa, che furono inviati anche nel Vecchio Continente dal Maestro Masatoshi Nakayama con la precisa missione di divulgare l’arte marziale. Ovviamente, viene da chiedere: cosa c’entra con la musica? Più o meno nulla a prima vista. Tuttavia, se andiamo a scavare un po’ nel terreno, scopriamo che i due semi (della musica e del karate) hanno delle affinità tra loro e, soprattutto, si sono alimentati dallo stesso humus: quello della libertà di pensiero, ma sopratutto d’azione, che ha caratterizzato la società europea dell’epoca.
Suona un po’ paradossale che i quattro Maestri giunsero in Europa con la precisa missione di insegnare il karate, un’arte marziale con una forte tradizione, mentre i cantanti erano per la modernizzazione della musica, ma questo è solo un aspetto che non nasconde l’importanza complessiva del progetto. Shirai, Kase, Enoeda e Kanazawa riuscirono a scalfire l’ostruzione delle menti ma, al pari dei The Animals, non ebbero la forza di rompere del tutto lo schema imperante.
Le persone, nell’Europa di metà anni Sessanta, erano molto più pronte a comprendere i Beatles anziché i The Animals. Così come erano molto più pronte a restare nella tradizione sportiva autoctona (calcio, rugby etc.) piuttosto che rivolgersi a quella d’importazione.

Verso la fine del decennio, però, successe qualcosa che cambiò radicalmente il modo di pensare di molte persone e di molti musicisti europei.
Finita l’epopea della swinging London molte band “rivoluzionarie” si sciolsero come neve al sole. Poi, nel 1969, giunse anche la notizia che i Beatles avrebbero cessato la loro attività per dare vita a progetti solisti. L’annuncio arrivò il 30 gennaio 1969 dopo la loro, famosa e ultima, performance dal vivo sul tetto della Apple Records. Tuttavia, era già da qualche anno che Paul McCartney e John Lennon avevano deciso di far “morire” i Beatles: prima con la scelta di non intraprendere più concerti dal vivo, perché si sentivano minacciati dallo loro stesso pubblico, in secondo luogo, perché si imbarcarono in mistici viaggi alla ricerca del suono perfetto che, probabilmente, non gli apparteneva. Per la seconda volta in dieci anni diventarono fulcro, anima e specchio di un cambiamento sia in un senso sia nell’altro.

Al termine del decennio sixties il sogno hippie tramonta e con esso lo spirito rivoluzionario della musica.
Il biennio 1970-71 segna un profondo cambiamento, tra il prima e il dopo, grazie all’affermazione di nuove sonorità più hard che daranno poi vita al genere che ha condizionato il decennio: l’hard rock. Sebbene i gruppi musicali, soprattutto britannici, dediti a questo genere fossero ancora “impegnati” sul fronte sociale e politico, a molti parve il contrario per via di una precisa e abbastanza controversa scelta stilistica proprio nella stesura della musica e degli arrangiamenti. D’altronde le condizioni globali erano decisamente cambiate.
Gli anni Sessanta avevano portato prosperità economica, libertà individuali, emancipazione e qualche agio sociale e le persone si sentivano meno predisposte a protestare, anche perché la protesta stessa si era trasformata da “pacifica” ad “armata” ad appannaggio della lotta politica. Sul fronte mondiale, anche i grandi temi come la Guerra del Vietnam, la crisi medio-orientale o la minaccia della guerra atomica, sembravano aver perso d’interesse in quanto ritenute tematiche senza soluzione, perciò, anche il mito del pacifismo crollò inesorabilmente. Lo stesso ideale utopistico che aveva animato i grandi festival come Woodstock, Isola di Wight o Monterrey morì il giorno in cui ad Almont, in California, un Hells Angels sparò a un hippie durante un concerto dei Rolling Stones.

Gli anni Sessanta avevano portato prosperità economica, libertà individuali, emancipazione e qualche agio sociale.

In ambito musicale quello che serviva era un segnale forte. Un punto di rottura. Un qualcosa o un qualcuno che potesse penetrare la corazza per arrivare al cuore delle persone e che non poteva più essere semplicemente un’idea astratta. Quel segnale arrivò nel decennio successivo, esattamente nel 1972, grazie a un personaggio che cambiò davvero il modo di vedere le cose dal punto di vista musicale, ma anche da quello sociale. Quel personaggio era David Bowie. 

Suggerimenti per la vostra playlist “d’epoca”

It’s My Life – The Animals

My Generation – The Who

Love Me Do – The Beatles

Waterloo Sunset – The Kinks

Sunshine Of Your Love – The Cream

I Can Only Give You Everything – Them

Making Time – The Creation

Heart Full of Soul – The Yardbirds

Gimme Shelter – The Rolling Stones

When I’m Five – David Bowie

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