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M° Massimo Polacchini

M° Massimo Polacchini

Il M° Shirai ha sempre trasmesso l’importanza del kime quale unione tra dinamica del corpo, respirazione e concentrazione mentale. Ne risulta un karate “pieno”, che va oltre l’esecuzione della tecnica come gesto “ginnico”.

Il M° Massimo Polacchini (6° dan) nasce a Bologna nel novembre del 1959 e consegue il diploma presso l’Istituto Statale d’Arte della città. Lavora in diversi ambiti, ma considera il karate il filo conduttore della sua vita. Nel 1984 inizia la carriera agonistica e dal 1986 insegna nella sua Yamato Damashii a San Giorgio di Piano, che considera la sua seconda casa dopo Bologna.

Maestro Polacchini, com’è nata la sua passione per il karate?
La prima volta che sono entrato in una palestra di karate è stato per fare un piacere a un amico. Era il 1982, fino a pochi anni prima praticavo ciclismo poi, dopo il diploma e l’ingresso nel mondo del lavoro, il tempo libero a disposizione non era sufficiente per allenarmi a livello agonistico, perché il ciclismo richiede molte ore. Successivamente provai diversi altri sport, ma nessuno riuscì ad appassionarmi. Un caro amico, che stava praticando karate, insistette perché andassi a provare nella palestra dove lui si allenava. All’inizio rifiutai, non conoscendo affatto quella disciplina ero convinto di trovare un ambiente che non mi sarebbe piaciuto, ma vista la sua insistenza accettai. Più per fargli un piacere che per curiosità. Da allora non ho mai smesso di praticare… invece il mio amico sì.

Quali sono stati i suoi maestri e che cosa ricorda del loro insegnamento?
Tra le persone importanti nella mia formazione di karateka, andando in ordine temporale, ci sono i miei primi Maestri Flavio e Massimo Landi. Sono loro che mi hanno fatto appassionare a quest’arte marziale, trasmettendomene i principi e i valori. Successivamente andai dal Maestro Giuseppe Perlati e tutt’ora, dopo più di trent’anni, è il mio Maestro al quale devo molto: la mia crescita, come karateka e soprattutto come persona, posso considerarlo un padre. 

Non può esserci karate tradizionale senza kime, senza efficacia.— M° Massimo Polacchini

Ci racconta il suo percorso agonistico?
Cominciai a fare l’agonista nel 1984, ancora cintura colorata, nella specialità kumite. Scelsi quella specialità in primis perché ne ero affascinato e poi non avrei potuto aspirare ad alti livelli nel kata, data la mia conformazione articolare non adatta. Da quel momento, nonostante le difficoltà, la mia è stata una carriera tutta in salita.
Nel 1985 vinsi la cintura nera in gara e nel 1988 entrai nella squadra nazionale, allora allenata dal M° Scutaro. Nel 1989, al primo campionato europeo, arrivammo terzi a squadre. Anni dopo, durante un altro campionato europeo a squadre, vincemmo il titolo.
Nel 1994, raggiunti i trentacinque anni d’età, dovetti lasciare l’attività agonistica nazionale, ma continuai con quella internazionale per un paio di anni fino al 1996. Dopo il 4° posto individuale alla Coppa Europa abbandonai definitivamente.
Per otto anni sono stato allenatore del CSAK FIKTA dell’Emilia Romagna.
Vi racconto uno degli aneddoti che più di tutti può rendere l’idea di come fosse l’atmosfera in ambito agonistico in quegli anni. A metà anni ’90 l’allenatore della nazionale era il M° Naito. Un sabato andai a fare un quadrangolare internazionale a Stresa e durante un incontro con un atleta inglese, chiudendo la distanza per anticipare un suo mawashigeri, fui colpito dal suo ginocchio sul muscolo obliquo, procurandomi uno strappo. Non riuscivo più a muovermi, stando seduto per terra non riuscivo ad alzarmi.
Tutta la settimana evitai di andare in palestra, tentai il venerdì, ma dovetti abbandonare dopo pochi minuti per il dolore. Il giorno dopo c’era la Coppa Shotokan FIKTA e noi, della squadra nazionale, non dovevamo mai mancare agli appuntamenti. Queste erano le aspettative del M° Naito e non volevamo certo deluderle, ma soprattutto sarebbe stato poco conveniente… Mi presentai al palazzetto cercando di sembrare il più normale possibile, quando incrociai il M° Naito mi guardò e mi chiese: “Massimo cosa avere?” gli risposi raccontandogli l’accaduto del sabato precedente e lui mi disse: “Uno buono si vede niente!” Quella frase mi fece capire che nessun tipo di giustificazione era ammessa… quel giorno vinsi la Coppa Shotokan.

Da quando Lei era un agonista a oggi, è cambiato qualcosa nella preparazione degli allievi? Qual è la sua opinione sul karate agonistico e le conseguenti gare all’interno di una federazione di “karate tradizionale”?
Gli allenamenti per gli agonisti allora erano indirizzati al miglioramento tecnico, ma senza perdere l’efficacia della tecnica. Erano allenamenti molto impegnativi, sia fisicamente sia psicologicamente e mettevano a dura prova il carattere dell’individuo, formandolo. Dovevamo essere pronti in qualunque situazione e condizione, come ho raccontato prima. Che la preparazione fosse diversa salta agli occhi soprattutto se guardiamo il percorso storico di una gara unica nel suo genere: il “Trofeo Masina”.
Si tratta di una gara ideata dal M° Perlati e la prima edizione risale al 1994. I partecipanti dovevano superare prove di Kata, Kumite e Tameshiwari. Per quest’ultima prova, alla prima edizione, furono utilizzate tavole dello spessore di 4 cm e tutti, chi al primo, chi al secondo tentativo riuscivano a romperla. Nelle ultime due edizioni della gara, tale prova è stata tolta, perché solo pochissimi atleti riuscivano a rompere la tavoletta, che nel tempo era ridotta a uno spessore di 2 cm (questi centimetri erano quelli validi per le donne durante la prima edizione!).
L’attività agonistica è un’esperienza molto importante e formativa per un praticante, però all’interno di una federazione di “karate tradizionale” l’efficacia della tecnica è fondamentale. I grandi maestri, il M° Shirai, il M° Kase, il M° Nishiyama hanno sempre detto: non c’è karate senza kime. Per cui non può esserci karate tradizionale senza kime, senza efficacia.

La considerazione che ho di me non ha grande importanza, quello che conta è cosa pensano i miei allievi.— M° Massimo Polacchini

Quali ricordi ha di quando è diventato una cintura nera e di quando ha conseguito la qualifica di maestro?
Il ricordo più emozionante è sicuramente il conseguimento della cintura nera: la vinsi in gara pochi mesi dopo aver conseguito la cintura marrone. Diventare in quel modo cintura nera era un sogno che si avverava. Sicuramente anche raggiungere la qualifica di Maestro è stato molto soddisfacente, ma è il frutto di un percorso consapevole e programmato.

Che cosa l’ha spinta a percorrere anche la strada dell’insegnamento e come si considera come insegnante? Trova differenze tra i metodi con cui Lei ha appreso e quello che si insegna oggi?
Ho intrapreso la strada dell’insegnamento quando ne ho avuto l’occasione. Volevo mettere a disposizione degli altri i benefici che la pratica del karate aveva portato a me. Avere la possibilità di aiutare una persona a conoscersi meglio e, attraverso questo passaggio, aiutarla a diventare una persona migliore è la più grande soddisfazione e ritengo sia il fine ultimo di un Maestro. Non trovo grandi differenze tra l’insegnamento di ieri e quello di oggi. Quella che è cambiata, dopo oltre trent’anni di esperienza, è la sensibilità di capire chi hai di fronte e, di conseguenza, di adottare un metodo più adatto.
Insegno a San Giorgio di Piano in provincia di Bologna e non so se sono un buon insegnante. La considerazione che ho di me non ha grande importanza, quello che conta è cosa pensano i miei allievi. Io cerco di dare loro il massimo e di farlo nel modo che reputo migliore. I frutti di quello che semino sono la più grande soddisfazione.

Quali sono i capisaldi del suo insegnamento? Secondo Lei, che tipo di rapporto bisogna creare fra maestro e allievo, e che cosa non dovrebbe mai fare un maestro nei confronti dell’atleta?
I capisaldi sono i dettami descritti all’interno del Dojo Kun. Attraverso la pratica si può conoscere meglio il proprio carattere, scoprendo le nostre qualità e accettando le sfumature che meno ci piacciono, cercando di modificarle, ma già il riconoscerle è un grande passo avanti. Per fare questo occorre la sincerità, soprattutto con se stessi.
La costanza è fondamentale per raggiungere gli obiettivi che ci prefiggiamo, in contrasto con la cultura attuale del “tutto e subito”, diffusa dai media e dai social. Anche il rispetto è importante, per lo sviluppo della persona e per il raggiungimento dei propri obiettivi. Per capire gli altri, per essere tolleranti ed essere accettati. L’autocontrollo per mettere in pratica tutto questo.
Il rapporto tra allievo e Maestro, secondo me, è basato sull’alternanza “amore odio”. Alla base ci deve essere l’amore del Maestro per l’allievo. Questo induce il Maestro a spronare l’allievo, affinché riesca a tirar fuori il potenziale che ha dentro, ma che non sa di avere. Per attuare ciò, spesso bisogna portare l’allievo fuori dalla propria zona di comfort e questo reca notevole stress allo stesso. In quel momento il rapporto col Maestro è di tensione. Probabilmente è in questa prima fase che l’allievo sceglie il Maestro, una scelta di fiducia.
Superato il periodo, la consapevolezza di un cambiamento genererà riconoscenza nei confronti del Maestro, il quale, successivamente, riporterà l’allievo fuori dalla zona comfort, innescando l’alternanza a cui mi riferivo prima.
Un Maestro non dovrebbe mai avere un atteggiamento egoistico, né sentirsi importante per i traguardi raggiunti dall’allievo, ma solo essere contento di avere aiutato una persona a esprimere le proprie potenzialità.

Qual è la cosa più preziosa che il karate Le ha insegnato?
Mi ha insegnato che nella vita non si può raggiungere qualsiasi obiettivo, ma applicandosi con costanza e caparbietà si può fare molto.

Qual è il suo attuale incarico all’interno della FIKTA?
Sono Consigliere Federale.

Il rapporto tra allievo e Maestro, secondo me, è basato sull’alternanza “amore odio”.— M° Massimo Polacchini

Secondo Lei, quali “valori aggiunti” ha oggi il karate del M° Hiroshi Shirai, rispetto ad altre scuole?
Il M° Shirai ha sempre trasmesso l’importanza del kime quale unione tra dinamica del corpo, respirazione e concentrazione mentale. Ne risulta un karate “pieno”, un karate che va ben oltre l’esecuzione della tecnica come gesto “ginnico”, ed è questo che differenzia la sua scuola dalle altre e ciò si avverte immediatamente.
Ha creato un grande gruppo di tecnici di altissimo livello, che hanno il dovere di collaborare tra loro per mantenere questa grande scuola, di fare in modo che questa ricchezza non vada perduta.

Che cosa auspica per il futuro del karate?
La cosa che auspico per il futuro è quello che ho appena citato: che noi tecnici riusciamo a mantenere viva la scuola del M° Shirai, che manteniamo la nostra identità e che riusciamo a tenere alto il valore dell’arte marziale.
Diciamo che facciamo karate tradizionale e il termine tradizionale sta proprio a indicare i principi dell’arte marziale, che non devono essere influenzati da un atteggiamento “sportivo”, bensì il contrario: la pratica sportiva della nostra Federazione deve essere influenzata dall’arte marziale. In questo modo lo stile delle nostre competizioni viene immediatamente riconosciuto, perché salta all’occhio e non si confonde con quello di una miriade di federazioni, che si assomigliano tutte perché non hanno una spiccata caratteristica.

Quali sono i suoi progetti futuri?
Sicuramente vorrei poter continuare a praticare secondo i principi per tutta la vita, ma cosa più importante vorrei continuare a dare il massimo e nel migliore dei modi alle nuove generazioni. Vorrei lasciare un solco che possa essere percorso dai giovani e che questi possano vedere, nel karate, le stesse meraviglie che vedo io. Non sarà facile, ma l’amore che provo per la disciplina parla per me e l’esempio è il miglior insegnamento che si possa dare.
Inoltre, vorrei dare il mio contributo alla federazione. Vorrei difendere e appoggiare i sani principi della disciplina, combattendo per questa. È il minimo che io possa dare dopo tutto quello che ho ricevuto. 

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