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Karate al di là del Muro

Karate al di là del Muro

Com’era il Karate, all’epoca della Cortina di ferro, nell’Est europeo?

Le ragazze e le signore se ne saranno accorte dando una sbirciata alle vetrine dei negozi di abbigliamento e accessori. In questo periodo rifulgono in tutto il loro splendore quelli che sembrano reperti degli anni 70: jeans a zampa d’elefante, gioielli etnici, camicie bianche lunghe a scollatura totale, con le maniche a sbuffo, corredate da cintura alta in vita… Nei saloni dei parrucchieri vengono riproposte le acconciature di David Bowie e non è un caso. È l’effetto dell’onda lunga generata dalla sua scomparsa e da quella di altri miti della scena rock suoi contemporanei ad avere generato questo revival.
Gli anni 70 però non erano solo esplosione di suoni e di colore. All’epoca c’era la guerra fredda ed esisteva un muro a Berlino che pareva invalicabile, ma poi è crollato nel 1989, dopo aver influenzato la storia del mondo e la vita quotidiana di milioni di persone.
Di questo vogliamo occuparci, in particolare di come era vissuto il karate al di là del muro e di quanto abbia risentito del clima ideologico-politico dell’ex blocco URSS.

Di questo vogliamo occuparci, in particolare di come era vissuto il karate al di là del muro e di quanto abbia risentito del clima ideologico-politico dell’ex blocco URSS.

Testimonianze dirette datano la diffusione del karate nell’Est europeo a partire dal 1965 all’incirca. Prima era molto poco conosciuto, nonostante di solito non ci fossero leggi o direttive dei partiti comunisti al potere per proibirne l’insegnamento e la pratica. Inizialmente, prese piede soprattutto nella ex Jugoslavia, che pure era un Paese piccolo e periferico rispetto al resto d’Europa. Però, sotto il Maresciallo Tito aveva acquisito una certa autonomia da Mosca nell’interpretare il comunismo, compreso il seguire certe “mode” importate dall’Occidente.
I maestri giapponesi che giunsero in quel territorio trovarono terreno già fertile, grazie all’opera di appassionati come per esempio Zeljco Iljadica. Di mestiere meccanico e camionista, dopo 6 anni passati nell’esercito, aveva praticato judo a Zagabria fin dal 1961. Diventò un karateka per caso, da autodidatta, grazie a un libro che trovò in palestra. In seguito ne ordinò altri dagli Stati Uniti, studiò tenacemente, e si impegnò nel comunicare le sue nuove conoscenze e abilità. Coi mezzi di cui disponiamo oggi, il suo training sarebbe stato infinitamente più facile. Il suo sogno più grande era quello di poter organizzare in patria un torneo con i migliori atleti di kumite del mondo e provare a competere con loro.
La storia dunque spiega come mai attualmente ci siano ottimi karateka, anche a livello agonistico, di nazionalità serba, macedone, montenegrina ecc.

Con l’unificazione della Germania finalmente il karate ebbe accesso alle stesse possibilità di tutti gli altri sport.

Da Zagabria passiamo a Berlino Est, capitale della DDR o Germania Est, autentica potenza del mondo sportivo, in cui l’attività competitiva era utilizzata a scopo propagandistico e di vetrina del comunismo. Quella di base, invece, era preposta all’indottrinamento di massa e alla selezione dei talenti. Tutti ormai sanno quanto il sistema DDR si basasse anche su doping e altre pratiche illecite, assieme ad allenamenti massacranti e alla separazione dei giovani più promettenti dalle famiglie, per inserirli in apposite scuole di stato. L’accelerazione della politicizzazione dello sport avvenne fra il 1967 e il 1973 e non impattò sul karate che, non essendo disciplina olimpica, venne escluso dai programmi di finanziamento e di sviluppo decisi dal Comitato Centrale. Tranne che come materia curricolare per gli allievi dell’Esercito e dei corsi della Stasi, la polizia politica (analogamente a quanto accadeva per i marines USA).
Un gruppo di sportivi tentò, attraverso incontri semi clandestini e una fitta corrispondenza con le autorità competenti, di cambiare questa situazione ritenuta “oltraggiosa” per la loro disciplina. Purtroppo, furono sottoposti alle attenzioni della Stasi e uno di loro venne addirittura espulso dal partito.
Con l’unificazione della Germania finalmente il karate ebbe accesso alle stesse possibilità di tutti gli altri sport.

Per quanto riguarda il Paese leader del Patto di Varsavia, la vecchia URSS oggi Russia, fino al 1973 il karate era bandito perché considerato estraneo alla cultura sovietica, anche nell’ambito dell’educazione fisica. Soprattutto due le accuse che gli erano mosse: favoriva eccessivamente l’individualismo (a scapito del lavoro di squadra) e l’ idealismo, con sfumature di inutile misticismo. Il Comitato per lo sport fece approvare diversi regolamenti contrari alla disciplina, fino al 1984. Ciononostante, veniva praticata abusivamente in club giovanili, costole distaccate di organizzazioni comuniste che le autorità non erano in grado di contrastare. Nel 1986 finalmente questi gruppi divennero legali e furono affiancati da divisioni dedicate alle arti marziali presso le più famose società di calcio, come lo Spartak Mosca.
Il karate oggi è uno degli sport favoriti – e praticati – dal numero 1 del Cremlino, Vladimir Putin, detentore della cintura nera 8° Dan.
I russi per ora non esprimono grandi campioni nell’agonismo, ma vantano una base numerica molto ampia ed entusiasta. Certo, al momento gli investimenti e l’appeal televisivo restano ridotti, rispetto alle ingenti risorse destinate ai Mondiali di calcio 2018 e al giro di scommesse dietro alle partite di football. Anche la mancanza di un “eroe” nazionale premia altre attività sportive.

Fino al 1973 il karate era bandito perché considerato estraneo alla cultura sovietica.

All’epoca della guerra fredda il karate rispondeva alle necessità psicologiche di entrambi gli schieramenti in campo. La più importante era quella di imparare tecniche che garantissero una maggior protezione dal nemico. Poi c’era l’opportunità di migliorare continuamente col riconoscimento dei progressi tramite l’avanzamento di cintura e il rafforzarsi di gruppi chiusi, legati alla pratica della disciplina.
In ogni caso, il karate ha provato la sua assoluta adattabilità ai diversi ambienti anche nello stile di insegnamento: paramilitare, o basato su forti relazioni personali, o estremamente didascalico. Sicuramente, otterrà uno slancio nuovo grazie all’assegnazione a Serbia e Azerbaijan di 2 delle prossime edizioni degli Europei, prima delle Olimpiadi.

 

Fonti:
Raccolta rivista “Black Belt”, 1966.
John M. Hoberman, Sport and Political Ideology, 1984.
A cura di Thomas A. Green, Joseph R. Svinth, Martial Arts of the World: An Encyclopedia of History and Innovation, Vol. 2, 2010.
Mike Dennis, Jonathan Grix, Sport under Communism – Behind the German East “Miracle”, Springer, 2012.
A cura di Barbara Törnquist-Plewa, Krzysztof Stala, Reassessing Orientalism: Interlocking Orientologies During the Cold War, 2015.

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