728 x 90

Il risvolto psicoeducazionale nell’insegnamento del Karate-Do

Il risvolto psicoeducazionale nell’insegnamento del Karate-Do
Foto di Claudia [Purnima] Squaranti

Un insegnante dovrebbe assegnare un significato psico-emotivo ai “sintomi” e alla storia del praticante.

“Poiché è dal passato che deriva il sogno, in ogni senso. È vero, anche l’antica credenza che il sogno ci porta certo verso il futuro. Ma questo futuro, considerato dal sognatore come presente, è modellato dal desiderio indistruttibile a immagine del passato“. (Freud S., L’interpretazione dei sogni, 1899, p. 565)

Dopo la fine di ogni sessione, il karateka esperto acquisisce quelle informazioni che gli permettono di riconoscere e di sentire il proprio corpo come efficiente ed efficace, modalità che diventa il mood che ogni praticante apprende come bagaglio personale nell’arco della sua pratica.
La diversità delle storie che appartengono alle singole persone assumono un ruolo principale nel “sentire/rsi ciò che ci accade”: nella pratica continua, da un’iniziale sensazione/percezione acerba come una piccola fiammella, si acquisisce una consapevolezza logico-emotiva (campo di azione in cui il passaggio da principiante a maturo karateka si evince nella capacità nel mettersi a nudo favorendo libero spazio al proprio modo di essere, di sentire e di esprimersi nel karate) in cui alla tecnica si unisce la personalizzazione della tecnica.

Un insegnante, pertanto, dovrebbe assegnare un significato psico-emotivo ai “sintomi” e alla storia del praticante.

Un insegnante, pertanto, dovrebbe assegnare un significato psico-emotivo ai “sintomi” e alla storia del praticante. Per sintomi si intendono tutte le manifestazione psico-fisiche (umore deflesso, movimento del corpo lateralizzato, difficoltà nel controllo dei distretti corporei etc.) che sono di accesso alla lettura delle difficoltà che il praticante manifesta con o senza piena consapevolezza. Tali manifestazioni se diventano continue e ripetitive, nonostante le correzioni applicate, indicano una scarsa consapevolezza, dove il “come ci si sente” diventa una consequenziale espressione esterna del proprio sentire interno. 

L’uso della relazione emotiva si lega al luogo ove si pratica, il Dojo, con le sue regole e i suoi modi di comunicare (ogni manifestazione comunicativa e relazionale non è disgiunta dal contesto in cui si vive).
La scelta di praticare karate, con il tempo, diventa una scelta d’amore:Una relazione d’amore dovrebbe metaforicamente diventare la nostra casa, l’abbraccio che ci contiene, lo sguardo che ci dà valore e ci fa sentire unici e speciali, le parole che danno conforto e spiegano ciò che altrimenti rischia di rimanere incomprensibile.” (A. Pellai, B. Tamborini, Zitta!: Le parole per fare pace con la storia da cui veniamo, 2019.) Se non fosse tale sarebbe solo sacrificio.
Il ruolo di una guida competente, dunque, è quello di fornire e di tradurre un’informazione di base (posso usare il mio corpo senza sentirlo “strano” grazie a una condizione di uguaglianza, per una dimensione di conoscenza dello spazio in cui pratico, per la possibilità di potermi muovere in sintonia con gli altri, perché sto bene con me stesso…) all’interno di un campo di azione non-giudicante, reso possibile nella sua opportunità di sperimentarsi e/o di pemetterSI di riconoscere che i singoli movimenti diretti nello spazio non sono semplicemente esecuzione, ma che il corpo – rappresentante della nostra storia di vita – è la bussola che orienta la nostra memoria corporea, che rende consapevole il praticante (sia esso bambino, ragazzo o adulto) che ciò che si acquisisce è la risultante di un’espressione della nostra realtà emotiva. 

Il corpo – rappresentante della nostra storia di vita – è la bussola che orienta la nostra memoria corporea.

Appare evidente, che tale tipo di competenza/funzione sarebbe di più facile fruizione nel caso in cui ci fosse la presenza di uno psicologo in grado di leggere le dinamiche sopracitate, ma anche competente nel Karate-do.
La psico-educazione diviene, così, imprescindibile per aiutare gli allievi a non identificarsi in modelli predefiniti (meccanismi di copia-incolla) costruiti dalle esperienze nel quotidiano.
Porto un “caso studio” dell’allievo X della asd Jishindo in cui le lezioni di karate del M° Rino de Felice si svolgono anche con l’ausilio di una psicologa/psicoterapeuta.
L’allievo X, nonostante affermi con sicurezza di divertirsi nella pratica del Karate e si mostri costantemente partecipe a tutte le attività, si presenta sempre alle lezioni con umore deflesso e con atteggiamento di “sconfitta”. Il suo corpo, con i suoi distretti, mostra quanto sia affranto dalla vita quotidiana, non “crede” nel gesto che sta compiendo ed è sempre lateralizzato nelle posizioni: in sostanza se io, allievo X, non riesco a sentire di essere forte e/o di avere la forza di reagire in una situazione di disagio, come posso riuscire a fare una tecnica di pugno e/o calcio con almeno una briciola di kime? In questo caso un oitzuki o un maegeri saranno solo lanciati o abbozzati, legittimando così la propria verità: “Non posso farlo! Non è da me! Non ci riesco!”. 

Cambiare la modalità nell’esecuzione di quel pugno o calcio (che non scaturisca da mero addestramento) significa ricostruire la sensazione che c’è dietro e, nel pieno rispetto dell’allievo, della propria storia e del proprio modo di essere, è necessario da parte di chi insegna acquisire una capacità di lettura dei processi emotivi: la nuova versione di sé stessi, che si istaura duranti gli anni di allenamento, attraverso un lungo processo di trasformazione e che rimane connessa alla “versione di prima”, permette al lato maturo di accettare la parte vulnerabile. Paura, sofferenza e vergogna possono entrare a pieno titolo in contatto con la parte acquisita, che è capace e forte (di poter affrontare le situazioni difficili e impreviste).

La psico-educazione diviene, così, imprescindibile per aiutare gli allievi a non identificarsi in modelli predefiniti.

Come un corso di creatività, dove la prima parola che il corpo produce è “aiutami a capire cosa sto facendo e se sto facendo bene”.
Motivare un principiante è permettergli di muoversi accettando le difficoltà e la scarsa comprensione di ciò che si sta facendo, perché è nel momento in cui il bambino inizia a muoversi fisicamente che inizia a muoversi emotivamente apprendendo un bagaglio unico e irripetibile: la sua espressione personale del karate. 

Ti potrebbe interessare anche:

Articoli recenti

I più letti

Top Autori