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Una proposta per diverse modalità di insegnamento del Karate (parte 1)

Una proposta per diverse modalità di insegnamento del Karate (parte 1)

Insegnare Karate ai bambini e agli adulti è la stessa cosa? Si usa lo stesso metodo? Un bravo praticante sarà un bravo maestro? Vediamo insieme risposte e suggerimenti.

 (in KarateDo n. 19 lug-ago-set 2010)

Premessa

L’apprendimento si configura come un processo autonomo e personale, in cui il Maestro è imprescindibile figura di riferimento e facilitatore. Qualche volta, come nella disciplina del Karate, in cui non esistono e non possono esistere autodidatti, il Maestro dovrebbe essere anche guida spirituale. La cultura orientale, a differenza di quella occidentale, considera mente e corpo un’unità indissolubile e universale. Uno dei suoi cardini è la ricerca di equilibrio e di armonia tra psiche e soma. In quest’ottica è nato il Karate, disciplina che permette di sviluppare in modo equilibrato, completo ed armonico, entrambe le componenti e porta in sé elementi educativi importanti per la formazione dell’identità dei giovani. Il setting in cui ha luogo l’attività sportiva è ideale per lo studio della personalità sana o problematica, dell’interazione in gruppo, degli aspetti motivazionali, aggressivi, ludici, di apprendimento motorio (www.arieteweb.it).

Gardner (1993) parla di 7 forme fondamentali di intelligenza che sono innate e che subiscono sviluppi diversi in funzione della valorizzazione culturale e dell’esercizio. Fra queste l’intelligenza corporeo-cinestetica la cui sede cerebrale è nel cervelletto, nei gangli della base e nell’area motoria, e la cui espressione concreta è valorizzata nello sport – si pensi, per fare un esempio, alla necessità di scelte cognitive tempestive, efficaci e creative in un contesto situazionale irripetibile quale il kumite. Ma anche altre, fra le sei forme intellettive teorizzate (linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, interpersonale, intrapersonale), nel Karate sono chiamate in causa e possono beneficiare di uno sviluppo.

Qualche volta esistono lotte intestine fra Maestri, vecchi rancori, incomprensioni tra federazioni ma, superando questi fattori umani poco nobili, restano tutto l’idealismo del Karate nella costruzione della personalità umana e la filosofia di Gichin Funakoshi. Secondo il M° Contarelli (4th International Symposium on Traditional Karate, Budo Arts and Combat Sports, 2007) la pratica è motivante per definizione.

Inoltre, nel Karate c’è molta sportività (fair play, sportpersonship o sportmanship), che si declina in alcune operazionalizzazioni concrete in un recentissimo lavoro di Scaparro:

è dedizione personale (continuità e rigore negli allenamenti, massimo impegno negli incontri, riconoscimento dei propri errori per porvi rimedio);

è rispetto e attenzione: per gli arbitri ed i loro collaboratori (accettarne le decisioni senza discutere, anche se ingiuste), per le convenzioni sociali implicite nello sport (saper perdere!), per l’avversario (non approfittare dei suoi infortuni, applaudirlo al termine dell’incontro, quale che sia il risultato);

è, “l’evitamento” di approcci negativi alla partecipazione sportiva (voler vincere ad ogni costo, perdere la calma dopo un errore).

Per riflettere su alcune semplici considerazioni e linee-guida, mi avvarrò della tradizionale suddivisione fra praticanti bambini, adolescenti ed adulti. Naturalmente, riprendendo la prefazione di Perlati a Grimaldi (2006), lo scopo di questo lavoro non vuole essere quello di rivelare una verità, bensì quello di suggerire a insegnanti e allievi degli spunti di riflessione. 

Bambini

Il karate è un’arte marziale – uno sport se si vuole essere riduttivi – che, configurandosi come pratica e come disciplina, in una dualità psicofisica inscindibile, si può definire “a misura di bambino”. Il Karate insegna innanzitutto il rispetto reciproco e l’autocontrollo. In questo senso è importante non confondere il Karate Tradizionale con i combat sport di ultima generazione, assai più violenti e senza quella base filosofica e spirituale che i karateka chiamano Do.

Personalmente mi sento di sconsigliare il Karate per i bambini che non abbiano ancora compiuto 6 anni. Questo a motivo dell’immaturità dei sistemi cognitivi ed affettivi, indipendenti, ma interagenti, del loro livello di coordinazione psicomotoria – comunque incompleta nell’infanzia –, dello scarso tempo per cui sono in grado di conservare l’attenzione e la concentrazione… A meno che un bambino non dimostri il desiderio di intraprenderne lo studio, con tenacia e cognizione di causa (senza aspettative fantastiche), anche prima.

Ovviamente, i macro cambiamenti fra un’età di 5 o 6 anni sono scarsamente rilevanti, tuttavia, con l’ingresso nella scuola elementare il bambino frequenta un ambiente molto più strutturato, ordinato e sedentario, rispetto alla scuola materna. Con bambini molto piccoli, il rischio è quello di non restare nella marzialità e sconfinare nel gioco, dove le due componenti sono in contraddizione e vanno l’una a scapito dell’altra, a meno che non vengano accuratamente bilanciate e modulate. D’altronde molta parte di apprendimento, per i più piccoli, è veicolata dall’attività ludica.

Il M° Contarelli, nel corso del sopra citato 4th International Symposium, lascia aperta una domanda importante: la nostra disciplina ha aspetti ludici? Davi e Sedioli (2002) sembrano non avere dubbi in questo senso, quando presentano un intero programma di attività ludiche e ginniche propedeutiche alla marzialità, con l’impiego della musica per lo sviluppo del ritmo e dell’equilibrio, con giochi per “riscaldare” la conoscenza del proprio corpo ed il rapporto con lo spazio. La loro posizione è condivisa da Grimaldi che dà rilievo al significato nobile del gioco, quello che molti Maestri e Istruttori ignorano, vivendo il gioco stesso come una perdita di tempo o un’attività a-finalistica.

Dal punto di vista psicopedagogico, quando il bambino percepisce ciò che gli viene chiesto di fare come se fosse un gioco, si attenuano molto l’ansia da prestazione e la preoccupazione di non riuscire a superare una prova. Imparare risulta più facile, oltre a connotarsi più come apprendimento reale che come addestramento (quando le tecniche sono “vuote” e realizzate senza conoscerne il senso). Se in palestra verranno riproposti gli stessi dogmi di rigore e disciplina che vigono (o dovrebbero vigere) a scuola, forse la pratica del Karate diventerà penosa e sarà presto abbandonata.                                  Notoriamente i bambini sono “di gomma”: cadono e si rialzano senza essersi fatti male… il loro allenamento è particolarmente vivace. Durante l’età scolare sono in fase sensibile (ossia in un arco di tempo molto favorevole per lo sviluppo) le capacità coordinative e le relative abilità motorie: la rapidità, la resistenza aerobica e anaerobica alattacida, la mobilità articolare. Sarebbe controproducente e totalmente inutile lavorare sullo sviluppo della forza massima e della resistenza anaerobica lattacida.

Un primo problema è costituito da come riuscire a mantenere catturata l’attenzione degli allievi. La palestra è un ambiente “diverso” e meno familiare della casa o della scuola. Paradossalmente in palestra vigono meno regole per chi a casa ne osserva molte (ha maggiore libertà di azione e di movimento) e più regole per i piccoli “selvaggi” domestici. Il Maestro, che teoricamente è una figura di riferimento solo per il fatto di essere un adulto, finirà per trarre la sua autorità dalla capacità di trattenere o allentare le redini della disciplina, gridando solo quando serve (e poco affinché serva), mentre sarà intransigente su poche, precise ed inviolabili regole.

Un secondo nodo critico riguarda la differenza d’età, anche minima, all’interno del gruppo. Bastano due anni di differenza per palesare grandi diversità a livello di coordinazione psicomotoria, potenza, concentrazione, conservazione dell’attenzione e disciplina in senso lato. D’altra parte sarà probabile incontrare nella pratica quel fenomeno noto nella teoria come decalage: lo sfasamento temporale nell’acquisizione di nozioni o abilità cognitive, spendibili in ambito scolastico, e di competenze emotive e neuromotorie. Il decalage si configura anche come influenzamento dovuto al rapporto significativo con un bambino di poco più grande, o a vere e proprie sedute di tutoring in cui un soggetto poco più adulto e più esperto insegna agli altri. Chi si pone in questa relazione d’aiuto, supervisionato dal Maestro, finisce per riflettere sulle proprie tecniche e sui propri errori, innescando un meccanismo di codeterminazione dell’apprendimento (Davi e Sedioli).

Secondo la teoria di Bandura, l’apprendimento sarebbe sociale e osservativo: mediato dall’attenzione, dalla ritenzione (il comportamento del potenziale modello deve essere notato e memorizzato), dalla riproduzione motoria e dalla motivazione, derivante da rinforzi estrinseci o intrinseci. Le capacità di interagire con gli input ambientali portano al processo di socializzazione, in termini cognitivo – evolutivi.

Anche bambini molto piccoli, dai 3 anni in poi, vivono ed esprimono, con modalità loro note, varie emozioni complesse quali la vergogna, la colpa, l’orgoglio e l’invidia. Inoltre, conoscono molto bene – anche se l’espressione è lontana da quella che pensiamo per un adulto – i concetti di reciprocità (regole con i coetanei) e di autorità (regole con l’adulto). Si presti poi attenzione alle tappe e ai compiti di sviluppo peculiari di ogni fascia d’età. Ad esempio, i bambini più piccoli non comprendono né utilizzano il pensiero astratto, né hanno molto senso critico, così sono propensi a credere a quello che vedono in televisione, senza una riflessione personale sull’argomento.

Per un bambino dai 2 agli 8 anni il pensiero è nello stadio preoperatorio: caratterizzato da egocentrismo intellettuale, in cui le possibili spiegazioni ai molti “perché?” che il piccolo pone sono improntate al finalismo (esiste un ordine antropocentrico e prestabilito), all’animismo (le cose sono viventi e dotate di intenzionalità) e all’artificialismo (le cose sono costruite dall’uomo). Il mondo mentale dei bambini di queste età è ricco di immagini che creano azioni interiorizzate e schematizzate, espresse nei giochi simbolici. 

Dai 7-8 anni fino agli 11-12 – termine che per alcuni soggetti si protrae – si esprime lo stadio operatorio concreto: per conoscere e per compiere operazioni intellettuali, il bambino ha bisogno di maneggiare concretamente gli oggetti reali, con qualche difficoltà a pensare in astratto – a meno che questo astratto non riguardi desideri, racconti fantastici e così via.

Le capacità mnestiche (memorizzazione e recupero) nell’infanzia possono essere sbalorditive. Per alcuni aspetti del Karate, ad esempio per imparare i kata – possibilmente oltre che le tecniche a memoria, anche il loro significato! – entrano in gioco le abilità che si sviluppano a partire dai 5-6 anni, mentre quelle più complesse, implicanti la rielaborazione dell’informazione e l’uso di schemi anticipatori, sono fortemente influenzate dal successivo sviluppo e dall’istruzione formale. 

A un bambino dal carattere chiuso, oppure competitivo ed egocentrico, il Karate insegna il senso di lealtà e la disciplina, lo abitua al controllo del proprio corpo e dei movimenti. Un bambino esuberante, iperattivo, imparerà che nel Karate è importante una grande capacità di concentrazione, ma anche buoni riflessi e rapidità di movimento. Essendo praticato in gruppo, ma allo stesso tempo da soli, il Karate-do stimola la formazione nella personalità del praticante delle istanze di capacità di relazione e di autonomia. La competizione diretta con l’avversario aiuterà la maturazione, globale e di alcune variabili specifiche, ad esempio la percezione corporea. Lo schema corporeo (la capacità di organizzare le percezioni corporee e di relazionarle con il mondo esterno), si sviluppa nell’arco dei primi dodici anni di vita.

Nel corso dei numerosi studi condotti e replicati da Zetaruk, Destombe et al., emerge che il Karate è un’attività sicura, anche per i bambini: il rischio di infortuni è direttamente proporzionale all’età, agli anni di pratica, all’intensità dell’allenamento (più di tre ore settimanali), alla cintura conseguita (marrone o nera). Generalmente si tratta di lesioni banali, come contusioni o lividi, subite durante una competizione più che durante un allenamento, e non sono state rilevate significative differenze di genere. Inoltre, il Karate Shotokan è secondo soltanto al Tai-chi per sicurezza, surclassando di gran lunga l’aikido, il tae kwon do e il kung fu.

A questo proposito si consideri il Trofeo Topolino: ogni anno partecipano più di 2000 karateka italiani e di almeno dieci nazioni straniere, di un’età compresa fra i 7 ed i 14 anni, di tutte le Federazioni, organizzazioni o Enti di promozione sportiva. Nel corso della manifestazione, l’infortunio è praticamente sconosciuto.

In merito all’aggressività, è ormai noto come il Karate assuma importanza terapeutica per quanto riguarda l’orientamento positivo della carica aggressiva, sia in eccesso che in difetto, grazie all’istanza fondamentale del controllo, radicato nell’atteggiamento di rispetto (Contarelli 2007). Reynes e Lorant hanno trovato che le arti marziali di matrice orientale non attraggono bambini più aggressivi rispetto a un gruppo di controllo, anzi, durante gli anni di pratica l’aggressività diminuirebbe, soprattutto se l’insegnamento è di tipo tradizionale. Confrontando l’aggressività di judoka e karateka di 8 anni, dopo un anno e in follow up dopo due di pratica, emerge in entrambi gli studi la conferma della minore aggressività dei giovani karateka, rispetto ai judoka coetanei. Da rilevare inoltre come l’aggressività senso-motoria dell’infanzia lasci spazio, nell’adultità, a un’aggressività più sottile, evoluta e complessa.

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