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L’arte della calligrafia (parte 2)

L’arte della calligrafia (parte 2)

Perché un Dojo non è semplicemente una palestra? Nel suo ideogramma scopriamo il profondo significato di questo termine.

(in Karate Do n. 3 lug-ago-set 2006)

Come ho già avuto modo di scrivere, il mio interesse, nel comprendere sempre meglio e addentrarmi sempre di più nel mondo del budo e delle filosofie orientali, mi ha spinto a raccogliere negli anni libri e riviste del settore per cercare di approfondire quei concetti appresi dai maestri giapponesi durante le lezioni.
Pur ritenendo la pratica importante e basilare, mi sentivo privato di tutte quelle nozioni che sicuramente uno studente giapponese aveva già per sua cultura. I libri tradotti in italiano sono comunque pochi, di quei pochi, troppi sono scritti da chi ne sa poco e sono spesso in contraddizione tra loro. Allora la “fortuna” di incontrare la calligrafia, insieme alla frequentazione di un corso biennale di lingua giapponese all’Università di Bologna (non certo sufficiente per parlare e comprendere correttamente la lingua, ma almeno per poter consultare un dizionario e per cominciare a comprendere qualcosa di più), mi hanno permesso di studiare gli ideogrammi, andando direttamente alla fonte, e qualcosa diventa più chiaro.

Prendiamo ad esempio il DOJO
È un termine ormai noto per noi praticanti di discipline del budo, ai tanti, invece, che non lo conoscono e ce ne chiedono il significato, rispondiamo tranquillamente che si tratta di quel luogo dove andiamo ad allenarci e, se vogliamo essere sbrigativi, lo traduciamo con “palestra”. Ed ecco che per chiunque ora è chiaro… La palestra! Quel locale dove a una certa ora, si susseguono lezioni pratiche con esercizi che fanno sudare (infatti, troviamo annessi gli spogliatoi dove cambiarsi e fare anche la doccia).
È quella sala dove dalle ore 18 alle 19 un insegnante paziente fa giocare dei bambini con la palla, dalle 19 alle 20 una flessuosa istruttrice in calzamaglia guida delle giovani (e non) a fare esercizi aerobici con la musica, dalle 20 alle 21 un signore vestito di bianco impartisce ordini in giapponese a un gruppo misto, in pigiama, che lancia calci e pugni all’aria. A fianco c’è anche una sala con musica e macchine di vario tipo dove si alternano a tutte le ore individui con ‘pancette’ che sperano di appiattire e supermuscolosi ragazzotti che si rimirano troppo spesso allo specchio.
Ecco, è tutto chiaro, questa è la palestra che, semplicemente tradotta in giapponese possiamo quindi definire “dojo”. Ma è proprio così?

Originariamente il concetto di dojo derivava da quella sala del monastero buddhista destinata alla meditazione, in seguito è stato adottato per indicare i centri di studio delle arti marziali.

Proviamo ora ad avvalerci della scrittura e andiamo a esaminare i due ideogrammi scritti in stile regolare kaisho che compongono questo termine.
In alto troviamo do = via, e sotto abbiamo jo = luogo, ossia, possiamo leggere: “Luogo dove si pratica la Via”… E ora già non è più così chiaro… Luogo, ci sta bene, infatti per fare qualsiasi cosa in gruppo occorre un luogo ben preciso, coperto, riscaldato d’inverno ecc., ma “Via”? Via è un tracciato, un percorso, ci da l’idea del cammino, del seguire un indirizzo, quindi, un obiettivo. Inoltre, la Via occorre che qualcuno ce la indichi, dobbiamo seguire chi ha già fatto questo percorso: una guida, un maestro.
Osservando qui di seguito la sequenza della trasformazione subita nel tempo dell’ideogramma di Do, vediamo che da segno primitivo (pittogramma n. 2, dove il disegno di una testa e di un’orma stilizzata sono chiari) abbiamo poi dei cambiamenti grafici, che approfondiremo in altro momento, per passare successivamente allo stile sigillo (piccolo e grande, n. 3 e 4), sino ad arrivare allo stile regolare (kaisho, vedi n. 5) oggi comunemente utilizzato. Comunque resta l’idea di quel legame indissolubile tra il percorso e il maestro, a cui accennavo prima.

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Esiste anche un’altra interpretazione dell’ideogramma, molto meno diffusa, di origine taoista che identifica i due puntini in alto a destra (n. 1) con lo yin e lo yang, uniti dal tratto orizzontale (n. 2) al segno di sé o se stessi (n. 3).  Il radicale di sinistra (n. 4) indica la strada, quindi, il carattere descrive l’unione che avviene spontaneamente da sé: “La via dell’unione dello yin e dello yang dentro di sé”.


Come potete notare, siamo comunque molto lontani dall’idea dello svago, del ‘far calare la pancetta’, dal mito dell’estetica del corpo.
In un dojo “tradizionale”, che immagino in una bassa costruzione immersa in un giardino curato, ritroviamo arredi, oggetti, indicazioni, che ci possono aiutare a comprendere meglio il significato di ciò che stiamo praticando e dei quali, una volta che lo abbiamo compreso, possiamo poi anche farne a meno.
Originariamente il concetto di dojo derivava da quella sala del monastero buddhista destinata alla meditazione, in seguito è stato adottato per indicare i centri di studio delle arti marziali.
Il saluto che si fa entrando e uscendo da questo luogo ne riconosce la sacralità, inchinandoci (rei) e dimostrando quindi rispetto, ci fa mettere nella giusta lunghezza d’onda, nel giusto atteggiamento. Fuori dalla porta, assieme alle nostre scarpe correttamente allineate e agli oggetti inutili come orologio, anelli ecc., rimane il nostro quotidiano, con il nostro sapere e i nostri mille dubbi.
La pulizia che troviamo nel dojo e che dobbiamo poi lasciare, non segue unicamente le norme igieniche (peraltro importantissime), ma simboleggia la purezza. In un vecchissimo filmato del dojo del Maestro Funakoshi si vedono gli allievi che, al termine della lezione, lavano il pavimento dal sudore con stracci bagnati e anche oggi in alcuni dojo tradizionali si è mantenuta questa sana abitudine.

Quando si fa calligrafia, ad esempio, preparare i materiali per l’uso risulta ovvio e, potremmo supporre, unicamente di ordine pratico, ma l’allestimento predispone la mente a ciò che si andrà a compiere: sciogliere la barretta dell’inchiostro attraverso un morbido e circolare movimento della stessa, dopo aver versato l’acqua nel suzuri, rilassa la spalla e calma la mente, quando la mente è tranquilla si accumula il ki, l’energia.
A seduta terminata tutto deve tornare come prima, va buttata la carta, vanno rimosse le eventuali macchie d’inchiostro sul pavimento, i pennelli vanno lavati accuratamente e asciugati per essere pronti per la prossima volta e così via.
Per cercare un parallelo nella vita quotidiana, potremmo immaginare una bella domenica estiva: andiamo in montagna con la famiglia a cercare il fresco “Ah, che luogo incontaminato!”. Stendiamo la tovaglia all’ombra di una grande quercia, dalla borsa termica togliamo le vivande preparate a casa e mangiamo con il canto dei merli nelle orecchie. All’imbrunire raccogliamo le nostre cose e in un sacchetto poniamo i rifiuti, sicuramente anche altri vorranno godersi questo luogo incontaminato!

Esiste anche un’altra interpretazione dell’ideogramma, molto meno diffusa, di origine taoista che identifica i due puntini in alto a destra (n. 1) con lo yin e lo yang.

Nel dojo, sulla parete principale (shomen) possiamo trovare una calligrafia con un motto, una citazione filosofica, accompagnato da una semplice e armoniosa composizione floreale. Solitamente troviamo appesa la foto del caposcuola ed è proprio verso di lui che, maestro e allievi, si inchinano insieme rinnovando il ringraziamento per ciò che è stato e l’impegno per il futuro.
Agli insegnanti è riservata l’area denominata joseki, lato superiore, mentre gli allievi sono nel lato opposto (shimoseki o lato inferiore), disposti in ordine di anzianità di grado, capendo così che tra i novizi (kohai) e il maestro (sensei) ci sono gli “anziani” (senpai), quegli allievi che hanno iniziato il percorso prima (sen) di loro e che devono seguire. Il senpai sente l’impegno del suo livello aiutando i novizi sia nell’apprendimento tecnico che in quello comportamentale, soprattutto con l’esempio.

La parola nel dojo può essere usata, ma con parsimonia e solo nei momenti estremamente necessari, il silenzio favorisce la concentrazione, inoltre, un inchino in sostituzione di una replica inutile o di una risposta precipitosa e impulsiva, rispetto a un’osservazione che ci è stata rivolta, indirizza sempre di più il nostro stato d’animo a un vero progresso interiore.
Tutti indossano la stessa ‘divisa’, a sottolineare che vantaggi sociali, economici ecc. rimangono fuori dal dojo e non sono parametri utili all’apprendimento della Via.
Non sempre si riesce a usufruire di uno spazio idoneo e ciò che abbiamo descritto per molti rimane solo un sogno, ma se sono chiari i concetti essenziali, anche la palestra di una scuola, un palazzetto dello sport, per quel tempo che va da saluto a saluto, possono essere il “nostro” dojo. Allora, inginocchiarsi e avere di fronte un cartellone pubblicitario non disturba i nostri occhi, l’immagine dei maestri del passato affiora ugualmente e lo sostituisce… la forma non ha più importanza.

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