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L’hara non si pratica

L’hara non si pratica

Colui che si incammina alla ricerca dell’hara si muove verso l’interno, per essere sinceramente e finalmente se stesso.

(In KarateDo n.32 ott-nov-dic 2013)

Di Riccardo Frare, a cura di Thomas Rossetto

Dico spesso una cosa ai miei allievi e che essi trovano sconcertante: “Dovete diventare non forti, ma deboli”. Naturalmente, vogliono sapere cosa intendo, poiché una delle ragioni per le quali hanno scelto il Karate Do, è che vogliono diventare forti. Non è necessario, mi dicono, allenarsi per diventare deboli.
Allora, io rispondo che ciò che sto dicendo è veramente difficile da capire: “Voglio che troviate la risposta in voi stessi e vi prometto che arriverà il momento in cui capirete realmente ciò che voglio dire”. Sono convinto che arriverà. Sono convinto che se i giovani praticano il karate con tutto il cuore e con tutta l’anima, alla fine giungeranno alla comprensione delle mie parole.

“Colui che è consapevole delle proprie debolezze rimarrà padrone di sé in ogni situazione; solo un vero debole è capace del vero coraggio.” (Funakoshi, 1988)

Colpire privilegiando la componente di morbidezza è qualcosa difficile da accettare, in quanto è comune l’erronea associazione fra forza muscolare ed efficacia nei colpi.

ARRENDERSI
Le prime volte che ci si accinge alla ricerca di un modo di colpire “più di pancia” si è soliti sperimentare una sorta di debolezza e inefficacia che non ci invita a proseguire nella ricerca, facendoci ritornare sui nostri passi per non abbandonare la più rassicurante forza muscolare delle spalle.
Come ripetuto dal M° Shirai, il kime è una contrazione massimale della durata di 1/20 di secondo… e il restante tempo di una tecnica, come devo viverlo?
Colpire privilegiando la componente di morbidezza è qualcosa difficile da accettare, in quanto è comune l’erronea associazione fra forza muscolare ed efficacia nei colpi. La linea di demarcazione qui è netta fra un praticante di alto livello tecnico e un’altro invece un po’ più “grezzo”. Mollare le spalle e cercare una via di movimento più profonda e totale, che ci coinvolga dal Centro di noi stessi è una sfida che il Karate Do e le arti marziali lanciano a tutti. Raccogliere questa sfida significa, non solo abbandonare le certezze, ma incontrare le paure che si celavano sotto il bisogno di quella sicurezza che il KarateDo, com’era giusto che fosse, ci ha fornito per i primi tempi da cintura colorata.

HARA: CENTRO… BARICENTRO?
Riguardo all’hara, se una persona è motivata a cercare è possibile trovare spiegazioni più o meno dettagliate su cosa sia. Un esempio, è un’analisi molto dettagliata (1983), seppur con toni vicini all’esoterico e al mistico, di Dürckheim Karlfried, diplomatico tedesco, psicoterapeuta e praticante zen. Hara non è vista solo come pancia, ma meglio come ventre, che parte dal diaframma e arriva fino al pube con una circonferenza che racchiude i fianchi e posteriormente i reni. In giapponese hara significa ventre, nella sua accezione energetico/spirituale. Lo stesso Seppuku, il suicidio rituale, veniva compiuto tagliando il ventre. Fondamentale per la comprensione di questo rituale è che si riteneva il ventre la sede della propria anima, pertanto, il significato simbolico era quello di mostrare agli astanti la propria anima priva di colpe in tutta la sua purezza.
La visione biomeccanica relega il concetto di Hara alla semplice padronanza del proprio baricentro, più o meno come un bravo ginnasta sa fare. Questa è una visione un po’ limitata, in quanto il baricentro è rappresentato biomeccanicamente come una linea centrale che attraversa il corpo.
Il centro a cui fanno riferimento le discipline orientali è più specifico, perché non è una linea, ma un punto specifico di questa linea, a 3-4 dita sotto il nostro ombelico, in profondità.
L’utilizzo che fa il ginnasta del proprio baricentro è un utilizzo sportivo, esterno, al fine di ottenere una prestazione. Colui che si incammina alla ricerca dell’hara si muove in direzione contraria, per se stesso, verso l’interno, per essere sinceramente e finalmente se stesso.
Ecco spiegato perché un ginnasta e un marzialista sono diversi, nonostante entrambi possiedano un’impeccabile gestione del proprio peso. Il praticante di Karate Do è alla ricerca degli effetti interni e psichici che provoca la consapevolezza del proprio centro, non ha gare da vincere, né esisteranno mai gare di hara… sarebbero ridicole, così come lo sarebbe una gara di preghiere.

STATI LEGATI ALL’ESPERIENZA DI HARA
Tra gli effetti che si hanno dall’ascolto del proprio centro si possono elencare:

  • un maggior stato di rilassamento;
  • maggiore capacità di concentrazione;
  • maggior economia nei movimenti;
  • sensazione di poter finalmente accedere al proprio potenziale e che questo sia pressoché illimitato;
  • maggior contatto con le proprie emozioni e libertà nell’espressione delle stesse, quindi, spontaneità.

Alcuni dei suddetti effetti sono spiegabili scientificamente. In maniera molto breve ci basti pensare che più del 90% della serotonina del corpo è prodotta dalle cellule enterocromaffini dell’apparato gastrointestinale, soprattutto nella porzione dell’intestino tenue. La serotonina* viene comunemente definita l’ormone del buon umore. Parallelamente, ai più conosciuti protagonisti del sistema nervoso autonomo, che sono l’ortosimpatico e il parasimpatico, si omette spesso il terzo componente di questa triade che, in maniera autonoma dal sistema nervoso centrale, coordina e governa un’infinità di funzioni. Questo terzo componente è il Sistema Nervoso Enterico, o SNE. La ricerca medica sta compiendo numerosi studi per giungere a chiarire il ruolo del SNE.
Fra questi famoso è il neuro-scienziato della Columbia University di New York, Michael D. Gershon, il quale ipotizza l’esistenza di un “secondo cervello”, contenuto nell’addome:Il cervello (della testa) invia poche informazioni al sistema nervoso intestinale che è in gran parte autonomo. Il 90% delle informazioni va dal basso verso l’alto, dall’addome al cervello Nella parete intestinale si nascondono due strati sottilissimi di un sistema nervoso complesso, il secondo per grandezza dopo quello della testa. Questi strati avvolgono il tratto digerente come una calza a rete. In questo modo possono coordinare i movimenti del riflesso peristaltico che fa avanzare il cibo nell’intestino. Durante la formazione dell’embrione, quindi, una parte delle cellule nervose viene inglobata nella testa, un’altra va nell’addome: i collegamenti fra i due sono tenuti dal midollo spinale e dal nervo vago. Al secondo cervello sono affidate le ‘decisioni viscerali’, cioè spontanee e inconsapevoli.”

Lo stesso seppuku, il suicidio rituale, veniva compiuto tagliando il ventre.

HARA, PSICHE E CULTURA
Gli approcci psicoterapici di stampo umanistico fanno riferimento alla pancia come zona psicosomatica che riflette l’inconscio. Come riportato precedentemente, emozione significa un moto verso l’esterno. Infatti, il lume dell’apparato digerente da bocca ad ano è considerato dal nostro organismo come facente parte del mondo esterno. Noi esistiamo come contorno di questo spazio interno, non molto diverso da un lombrico. Per entrare dentro di noi il cibo e le sostanze nutritive devono entrare nel circolo sanguigno attraverso i capillari nei villi intestinali. Lungo il canale alimentare si scaricano e si somatizzano le emozioni trattenute o represse. Sarà capitato a tutti di notare che le proprie emozioni bloccate si trasformano in scariche vegetative che coinvolgono l’apparato digerente, come stipsi, diarrea, vomito, gastriti e coliche.

Gerda Boyesen, famosa psicanalista del ‘900 di formazione freudiana, introdusse l’ascolto dei moti peristaltici durante l’analisi dei propri pazienti. Notò che durante l’elaborazione dei vissuti nevrotici, si presentavano numerosi moti intestinali, spesso accompagnati da scariche vegetative, a cui diede il nome di psicoperistalsi.
La cultura popolare, scevra di qualsiasi concettualismo, attribuisce alla pancia numerosi detti: “fare le cose di pancia”, per conferire sincerità e immediatezza a un gesto, “avere le budella contorte dalla rabbia”, provare un interesse “viscerale” per una tal cosa, “parlare alla pancia delle presone” ecc.
La simbologia che si può trarre da tale zona corporea è inoltre molto vasta: essa è il luogo di sviluppo della vita nella gravidanza, la zona del benessere (avere la pancia piena) e anche luogo di rilassamento (starsene con la pancia al sole, oppure, passare il tempo a grattarsi la pancia).
In ultima se chiediamo a un bambino dell’asilo di indicarsi e dire il proprio nome egli dirà : “Io sono Paolo” e con il ditino si indicherà la pancia, in quanto si percepisce come essere umano il cui centro è lì.

ENERGIA DI NASCITA

 “Tanden, Tanden, Tanden… Mantenevo sempre la concentrazione su questo punto, ma non sapevo in verità come fare ad avere il mio Hara. Avevo semplicemente deciso e vi ho creduto con tutte le mie forze e, stranissimo, un giorno era lì.”
M° Kase

Più difficile del dire cosa sia Hara, è parlare e scrivere di come sia possibile avere l’Hara o, sarebbe meglio dire, ESSERE Hara. Ma nessuno, tantomeno questo articolo, ancora ci è riuscito in maniera soddisfacente.
Hara è un punto di vista nuovo. È vedere le cose dal di dentro, da sotto, dalla profondità. Parlare di punto di vista è un espressione legata all’identificarsi con una determinata cosa. Identificarsi come Hara significa arrendersi al fatto che la nostra vera natura non sono il nostro Nome e Cognome, la nostra professione, il nostro titolo di studio, i ricordi traumatici o piacevoli che abbiamo impressi nella memoria. In altre parole Hara non è una forma ulteriore, rielaborata e potenziata dell’idea che abbiamo di noi… l’Ego. Hara è accaduta grazie alla scintilla che ha unito uno spermatozoo con un ovulo, il tutto all’interno, che coincidenza, di un’altra Hara. Hara è il modo di muoverci, parlare, colpire, quando non ci identifichiamo con quello che stiamo facendo, ma ne siamo testimoni e osservatori. Osservatori come durante una tecnica di Karate quando lasciamo che il colpo esca senza rimanerci ‘attaccati’.
Hara è il modo che ha un essere vivente di muoversi quando è libero da condizionamenti e paure. Il potere del suo intero peso si muove e vibra all’unisono nella direzione in cui deve andare, senza dispersioni, tentennamenti, dubbi e quindi rigidità.

L’HARA NON SI PRATICA
Hara è un modo di muoversi naturale. Naturale, implica che fa parte della mia natura in quanto essere vivente e perciò mi appartiene, proprio sin da cintura bianca. Una cintura bianca è già decimo Dan in potenza, ma non di fatto, perché non ne ha esperienza diretta. Dovrà praticare moltissimo per togliere ciò che gli impedisce di sentirsi tale. Se quindi ciò di cui stiamo parlando è lo stato naturale, esso non può derivare dall’allenamento. Non si nasce artificiali per diventare naturali. L’allenamento non può in alcun modo dare l’Hara, perché essa c’è sempre stata. L’allenamento TOGLIE ciò che non ci fa essere come Hara.
Come detto nel precedente articolo, le spalle sono la manifestazione artificiosa del colpire in modo naturale. La rigidità delle spalle è la negazione dell’esperienza di Hara. Dieci o vent’anni di Karate insistendo e spingendo inutilmente, sono anni passati a CONFERMARE la propria tensione. La rigidità delle spalle è legata all’errata convinzione che il Karate Do si debba fare, anziché sentire

Ecco perché un ginnasta e un marzialista sono diversi, nonostante entrambi possiedano un’impeccabile gestione del proprio peso. Il praticante di Karate Do è alla ricerca degli effetti interni e psichici che provoca la consapevolezza del proprio centro.

ALLONTANARSI DAL CENTRO È IMPOSSIBILE
Nonostante l’esperienza quotidiana ci faccia credere di essere “scentrati”, questo comunque è energeticamente, nonché fisicamente, impossibile. Trovandoci all’interno di un corpo solido il centro è sempre lì, fermo, nonostante malumori e difficoltà. Non esiste nessuno con “un centro non in centro”. Credere di non essere centrati e andare ad allenarlo è un buon tentativo per non fermarci ad ascoltarlo.
Cosa fare dunque? Niente. Veramente niente. Stare quieti, non muoversi, non parlare, non guardarsi intorno, non pensare, non respirare volontariamente. Fermarsi e aspettare.
Proviamo a metterci in piedi in hachiji dachi. Dedichiamo qualche minuto per allineare parallelo il nostro corpo con la forza di gravità. Privilegiamo in questo momento uno stato di rilassamento diffuso nel corpo, che permetta al peso di “scendere al di sotto”, fino a terra, rilassando così la muscolatura antigravitaria, soprattutto le due macro regioni molto importanti: il pavimento pelvico e le spalle. Ciò che ci tiene in piedi è lo scheletro ed è più che sufficiente.
Ora, concentrando lo sguardo su un solo punto, limitiamo i pensieri. Quando la mente si sarà calmata lasciamo andare il respiro e questo scenderà verso il centro da solo.
Proviamo a eseguire delle tecniche di tsuki da in piedi. Dopo il colpo ascoltiamo la forza che dal pugno via via ritorna indietro. Dove ritorna? Osserva dove va l’energia dopo aver colpito. In silenzio accorgiamoci che l’hara è il centro della nostra energia e, se siamo sufficientemente attenti e dediti all’ascolto di noi stessi, scopriremo che è il luogo da dove l’energia parte e, se la mente e il nostro carattere non lo impediscono, verso dove naturalmente torna, da sempre e per sempre.

 

“Il Sé invero è sempre presente;
è solo a causa dell’ignoranza,
che esso non è percepito.
Quando l’ignoranza è distrutta,
il Sé diviene manifesto;
come quando si scopre
di avere indosso
un gioiello a lungo cercato.” 

(Sankaracarya, 2002)

 

*SEROTONINA: regola il ritmo circadiano. Svolge un ruolo significativo come neuromediatore nella regolazione di molteplici attività a livello del SNC, quali controllo della soglia del dolore, induzione del sonno, regolazione dell’attività endocrina ipofisaria, eccitabilità neuronale, termoregolazione, appetito, comportamento sessuale, aggressività. Molteplici studi hanno dimostrato che un aumento dei livelli della serotonina porta a innalzamento del tono dell’umore, diminuzione dell’appetito, miglioramento del sonno. Viceversa, sindromi depressive si manifestano anche a causa di un difetto di serotonina in determinate fessure sinaptiche del cervello. La serotonina è presente nelle piastrine, di cui stimola l’aggregazione esercitando un’attività vasocostrittrice e trombogena in risposta alla lesione dell’endotelio vasale. La serotonina regola la motilità e le secrezioni intestinali, determina diarrea se essa è presente in eccesso e stitichezza se presente in difetto. Quest’azione, in particolare, è sensibile all’interrelazione tra il “sistema nervoso enterico” e il Sistema Nervoso Centrale e spiega come mai importanti stress psicofisici abbiano molto spesso ripercussioni sulla motilità intestinale.

 

Bibliografia
Bottaccioli, C. (2007), La Saggezza del Secondo Cervello, Tecniche Nuove Edizioni.
Boyesen, G. (1999), Tra psiche e soma. Introduzione alla psicologia biodinamica, Astrolabio Ubaldini.
Funakoshi, G. (1988), Karate Do. Il mio stile di vita, Edizioni Mediterranee, Roma.
Gershon, M. D. (1998), The second brain, Harper Collins, New York.
Karlfried, D. (ultima edizione 1992), Hara. Centro vitale dell’uomo secondo lo Zen, Edizioni Mediterranee, Roma.
Sankaracarya, (2002), Atmabodha. La conoscenza del sé, Edizioni Mediterranee, Roma.
http://it.wikipedia.org/wiki/Sistema_nervoso_enterico. (s.d.).
http://it.wikipedia.org/wiki/Sistema_nervoso_intramurale. (s.d.).
http://www.bioenergeticamente.it/il_secondo_cervello.html. (s.d.).
http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/13_gennaio_14/dossier-secondo-cervello-intestino.

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