728 x 90

“Tenere insieme”, una riflessione sugli Assoluti FIKTA 2023

“Tenere insieme”, una riflessione sugli Assoluti FIKTA 2023

Finché la FIKTA riuscirà a “cementare” questo passaggio graduale di consegne, il futuro del karate tradizionale nel nostro Paese è garantito.

Una manifestazione importante come i Campionati italiani FIKTA non è mai semplicemente un’occasione per dimostrare la bravura dei propri atleti e, di conseguenza, promuovere l’attività della palestra di provenienza. È piuttosto una verifica su larga scala (ben 800 allievi da tutta Italia) dello “stato dell’organizzazione” e questo è particolarmente vero per una federazione di karate tradizionale, col suo modo peculiare d’intendere la competizione di karate in cui, oltre a gareggiare, si collabora, si impara dagli errori propri e altrui e si contribuisce, ciascuno nel suo ruolo, alla crescita collettiva.
Per questo motivo mi sembra che il concetto di “tenere insieme” sia il più adatto a commentare questa festa esaltante e faticosa che per due giorni ha occupato e invaso il Palasport di Busto Arsizio.

Abbiamo apprezzato non pochi kata che fondevano la perfezione tecnica con un’interpretazione unica e convincente.

 

Tenere insieme le generazioni
Agli Assoluti 2023 la FIKTA ha dimostrato anzitutto la capacità di “tenere insieme” generazioni diverse, dai patriarchi ottantenni del karate tradizionale, alle giovani generazioni appassionate e curiose che si misuravano nelle categorie “speranze” e “cadetti”, o che davano prova di destrezza e disciplina nelle dimostrazioni dei bambini e del CSAK della Lombardia, che hanno preceduto le finali del sabato.
Una fotografia, che ho scattato quasi casualmente, può rappresentare questa congiunzione ideale tra il karate di ieri, quello di oggi e quello di domani: il maestro Giuseppe Perlati, appoggiato alla balaustra, che spiega con calma e saggezza paterna le ragioni della “sconfitta” (solo sportiva, premessa di progresso futuro) a un suo giovane allievo. Ma esempi come questo si sono visti in gran numero: arbitri dai capelli bianchi affiancati da colleghi più giovani, famiglie di karateka col padre o la madre a seguire i loro figli impegnati sul tatami. Finché la FIKTA riuscirà a “cementare” questo passaggio graduale di consegne, il futuro del karate tradizionale nel nostro Paese è garantito. Noi vecchi ci impegniamo a tenere duro: se chi scrive, dopo sette ore di vagabondaggio per i quadrati di gara, era esausto, non altrettanto si può dire del Maestro Hiroshi Shirai che ha monitorato attentamente la manifestazione dall’inizio alla fine, affiancato dal suo fedele allievo (e mio vecchio amico) Rosario Di Mauro.

Kata: tenere insieme la tecnica e l’interpretazione.
Per quanto riguarda le prestazioni degli atleti impegnati negli Assoluti, è soprattutto nel kata che appare evidente l’esigenza di “tenere insieme” la tecnica e l’interpretazione e, da quanto si è visto a Busto Arsizio, i migliori esecutori ci sono riusciti benissimo. Infatti, anche se, citando l’abusato principio del maestro Funakoshi, “Il kata è perfezione dello stile”, lo stile di per sé non è sufficiente né per vincere una gara né, cosa più importante, per eseguire un ottimo kata.
Il kata è sì un’espressione di stile, come un poema o un pezzo di musica classica, ma quello che fa la differenza è la personalità dell’interprete, la capacità di vedere e far vedere gli avversari contro i quali si combatte. “Gli altri” (quelli dello “sportivo”) se ne sono accorti da un pezzo, ma spesso confondono l’interpretazione con la recita in chiave grottesca, con smorfie bellicose, moltiplicazioni di kiai e marce guerresche entrando e uscendo dal tatami. Niente di tutto questo si è visto a Busto Arsizio, ma, invece, abbiamo apprezzato non pochi kata che fondevano la perfezione tecnica con un’interpretazione unica e convincente.

L’impressione è che il kumite FIKTA si trovi in mezzo a un guado.

Già sapendo di far torto a molti, mi accontenterò di citare tre esempi: prima di tutto Martina Tommasi, che ha avuto il coraggio di scegliere un kata difficile ed “ermetico” come Meikyo, dandone un’interpretazione convincente e sottraendosi alla monotona alternanza Unsu – Gojushiho.
A seguire, Giovanni Guidetti, che ha trasferito nel suo vibrante Unsu tutta la sua passione di combattente (ha infatti vinto nel kumite), dimostrando che anche in un’epoca di specializzazione estrema è possibile cimentarsi con successo in entrambe le gare.
Infine, a un diverso livello di maturità, Amina Tarawnee, che si è confermata campionessa juniores con Gojushiho-sho. Il kata di finale (risultato meritatamente il migliore) non rende pienamente giustizia alla straordinaria pulizia tecnica della giovane esecutrice, che dà il suo meglio in un Kankudai da manuale. Amina mi ha confessato che vorrebbe cambiare tokui kata, ma io (affettivamente molto legato a Gojushiho-sho, al quale devo il mio 5° dan) le consiglierei prima di guardare in video le interpretazioni dei maestri Osaka e Marchini per scoprire le potenzialità espressive del Kata che, in fondo, pratica da poco tempo.

Bisogna recuperare la decisione senza rinunciare alla rapidità degli spostamenti e alla varietà dei colpi.

Kumite: tenere insieme todome e dinamismo.
Diciamo le cose come stanno: il combattimento libero non è proprio al centro dell’impegno didattico della nostra federazione. Il lavoro assiduo sui fondamentali e sul kata delega in gran parte al bunkai lo studio delle applicazioni e il loro impiego “anche” nella difesa personale. Rispetto a venti, trenta, quarant’anni fa si fa meno jiu kumite, relegandolo alla preparazione degli esami di Dan e ai corsi agonisti. Il risultato si vede nelle prove mediocri dei candidati agli esami e, in modo anche più chiaro, in gare come gli Assoluti. L’impressione è che il kumite FIKTA si trovi in mezzo a un guado: conserva ancora il regolamento del “vecchio” kumite d’impronta JKA, ma la maggior parte degli atleti cerca di fare qualcosa di diverso: si muove di più, gira per il tatami, usa calci e spazzate.
Tutto questo (fatte le debite eccezioni) risulta però poco convincente perché:
• manca la decisione per infliggere un colpo risolutivo (todome);
• manca spesso la corretta scelta di tempo e distanza, per cui spesso i contendenti attaccano da troppo vicino o da troppo lontano e comunque uno alla volta, come se stessero eseguendo jiyu-ippon kumite;
• manca talvolta anche il controllo, anche se i guantini attenuano l’effetto dei colpi;
• manca la decisione di anticipare l’attacco dell’avversario;
• si attacca quasi esclusivamente di gyakuzuki, lasciando scoperto il viso, a volte si doppia di mawashigeri e qui finisce il repertorio delle tecniche usate (maegeri e kizamizuki, questi quasi sconosciuti!).

Per questa serie di lacune i punti vengono assegnati quasi in modo casuale e a volta sono molto opinabili (uno tsuki jodan può valere un wazari, un ippon o anche un chui, a seconda di chi sta arbitrando). Qui non si sta certo suggerendo di ritornare ai “duelli statuari” degli anni 60-70, con due samurai che si fronteggiavano immobili per due minuti, finché un fulmineo zuki (o keri) poneva fine alla contesa. Ma certi incontri visti a Busto sono sembrati la brutta copia di brutti incontri di karate sportivo.
Bisogna recuperare la decisione senza rinunciare alla rapidità degli spostamenti e alla varietà dei colpi. Altrimenti, forse è meglio non gareggiare affatto. Stefano Zanovello, Giovanni Guidetti, Marina Gaffarelli e Francesca Re sono dei “veterani” che combattono bene perché fanno un karate completo.
Ecco, credo che abbiate ormai capito che per me il nostro karate ha un futuro se “tiene insieme” le esperienze passate con i progressi fatti, senza perdersi, come fanno altri, nella specializzazione e nell’individualismo.

Ti potrebbe interessare anche:

Articoli recenti

I più letti

Top Autori