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Un’esperienza sul campo: il Dojo in chiave emotiva

Un’esperienza sul campo: il Dojo in chiave emotiva

Nel Karatedo ogni gesto, ogni tecnica, ogni movimento, durante la sua pratica diventano strumento di comunicazione, il più delle volte inconsapevole, del nostro mondo interiore.

Riprendere la pratica, dopo un periodo di fermo, è sempre molto complicato, soprattutto in un periodo come quello attuale dopo le continue interruzioni dell’emergenza Covid, causando negli allievi/praticanti un “rallentamento” sul processo di sviluppo fisico/tecnico e sul processo di sviluppo emotivo (la capacità di sentirsi adeguati e in linea con la crescita e il livello di graduazione che si è raggiunto con tanto sudore e volontà).
L’impossibilità di sperimentarsi in modo continuativo, perdendo la quotidianità come risorsa, ha permesso all’insicurezza e all’imprevedibilità di diventare elementi connotativi di tutte le attività relative alla pratica del Karate-do, cronicizzando in molti casi paure, preoccupazioni, ansie, bassa autostima e, in altri casi, facendo insorgere difficoltà nell’entrare in relazione con l’altro nel lavoro a coppie, esprimendo forte stress, altri ancora non riuscendo più a essere performanti in situazioni di pressione (si intende che tale discorso vale prevalentemente per la cintura colorate che ancora non hanno stabilizzato/consolidato il proprio “essere nella pratica del Karate”).

Il lavoro che ci aspetta nei prossimi anni non sarà facile.

Nel karate siamo allenati a pensare e a visualizzare che il nostro corpo e le nostre azioni non sono mai lasciate al caso (rispettando sempre l’età del praticante), contrariamente a quanto accade nella vita quotidiana in cui siamo “catturati dal corpo” solo quando è in una fase di allarme/dolore: lo stato di emergenza, tuttavia, ha indotto in modo pressoché generalizzato a iniziare ad avvertire il corpo come un fardello, come un punto di disagio/debolezza, condizione che si è riscontrata fortemente in tutti i dojo alla ripresa delle attività soprattutto con gli allievi più giovani.
Il lavoro che ci aspetta nei prossimi anni non sarà facile, ma c’è la necessità che s’inizi a pensare al corpo in modo diverso nell’approccio verso quegli allievi che più di tutti hanno subito l’impatto “Covid”, pensandolo cioè come con un traduttore esplicito di ciò che la mente non è in grado di sopportare e che la voce non è capace di comunicare (meccanismo di difesa).

Facciamo un esempio: se un praticante che non aveva mai mostrato difficoltà nell’eseguire una tecnica e/o difficoltà nell’apprendere una determinata sequenza di kihon e/o nell’eseguire i kata, ora lo ritroviamo in una situazione di gap psicomotorio, oppure in blocco durante situazioni ad alto valore stressogeno (gare, esami etc.), ciò significa che, fatte le dovute eccezioni, il corpo sta mandando un segnale forte e chiaro, un segnale di “disagio” e/o difficoltà emotiva, e il suo “bloccarsi” assume un ruolo di protezione per la mente e di campanello d’allarme.
Questa strada di ascolto delle difficoltà e delle necessità, avente come facilitatore della comunicazione il corpo, dovrebbe essere presa in carico con grande attenzione dal Maestro e/o Istruttore, attraverso una consapevole e puntuale osservazione sui dettagli e sulle piccole variazioni di modalità di pratica che possono coinvolgere tanto il rapporto con i compagni di pratica, quanto l’ambito relazionale con il maestro, quanto il coinvolgimento nella pratica (emotivo e pratico) e, non da meno, l’assiduità di pratica.

Il corpo sta mandando un segnale forte e chiaro, un segnale di “disagio”.

La possibilità di poter mascherare il nostro “sentire” nell’agire nel quotidiano, nel Karate-do diventa pressoché nulla, perché ogni gesto, ogni tecnica, ogni movimento, durante la sua pratica diventano mezzo/strumento di comunicazione, il più delle volte inconsapevole, del nostro mondo interiore… La difficoltà resta nell’imparare a interpretare e a tradurre l’agito nel Karate come un messaggio ricco di significati e significanti di chi pratica: il karate ci dice che non è possibile fare finta di stare bene con sé stessi ed è bussola del proprio modo di stare ed esserci nelle cose e, come tale, ci indica la strada da seguire.
L’approccio emotivo entra a pieno titolo nella pratica, in quanto è facilitato dalla sua logica di base della stessa disciplina, che conduce il karateka allo sviluppo delle proprie capacità, rispettando i suoi momenti di crisi e di difficoltà: ogni passaggio di graduazione prevede una messa appunto e una ristrutturazione su ciò che si è convinti di sapere e ciò che si sa fare, considerando la chiave di lettura che il colore di cintura richiede.

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