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Il karate include, non divide

Il karate include, non divide

Reimpare a fare Karate con umiltà, fino al conseguimento del 7° dan allo Stage Tecnici FIKTA a Fidenza.

Quando nel 1972 un ragazzino di sedici anni entrò per la prima volta in un Dōjo di Karate, non sapeva che cosa sarebbe accaduto nei successivi cinquant’anni. Era un ragazzino insicuro, era stato obeso da bambino e per questo emarginato, aveva incontrato il JuDō qualche anno prima, gli era piaciuto, ma non se n’era innamorato. A quattordici anni, finalmente era dimagrito, ma la sofferenza provata, lo aveva reso insicuro e questo si rifletteva nei suoi comportamenti di compenso. Un suo amico più grande, cintura marrone (all’epoca, stante la penuria di insegnanti, le cinture marroni iscritte ai corsi istruttori, potevano insegnare…), aprì il suo primo corso di Karate, proprio nella palestra sotto casa. Quattro allievi, un Aspirante Istruttore, un corridoio con il feltro come pavimento, ci si allenava come meglio si poteva. La voglia era immensa, i film di Kung fu, che allora venivano definiti ugualmente di Karate, avevano acceso una passione in tutti i ragazzi della sua epoca.

A quei tempi, il Karate era puro dolore.

A quei tempi, il Karate era puro dolore.
I piedi si ustionavano sul feltro.
I colpi arrivavano, bastava che non spaccassero nulla. Si poteva (bisognava…) toccare, il controllo veniva dopo (talvolta non veniva proprio).
Le ripetizioni erano infinite, estenuanti, a volte senza senso, o meglio, l’unico senso era “educare” la capacità di sopportazione.
Alla fine della lezione “fiumi” di addominali, piegamenti sulle braccia, saltelli accosciati. Il Maestro non si poteva MAI mettere in discussione, in caso contrario… addominali o saltelli o scapaccioni.
Quel ragazzino, però, aveva una qualità, era coraggioso ed era tenace, reagiva colpo su colpo, cadeva e si rialzava, una volta, dieci volte, cento volte… non era una questione di numeri. Sentiva che qualcosa si stava sbloccando in lui. 

Conobbe, finalmente, un mito vivente, il Maestro Hiroshi Shirai, all’epoca sesto dan. Fu amore a prima vista, mai nessun insegnante, di qualsiasi cosa, nella sua vita aveva stimolato in lui un’emozione così potente.
Il ragazzino venne autorizzato dal suo amico/insegnante, diventato nel frattempo cintura nera, a frequentare assieme a lui, le lezioni del Centro Studi Karate Shotokan di Roma, palestra storica, all’epoca, puramente mitica.
Il ragazzino conobbe così i Maestri Sumi, poi il Maestro Tagwa, il Maestro Passeri, Carnevale, Esposito, Lafuenti e, infine, il Maestro Toshio Yamada, altro Maestro fondamentale nella sua crescita nella pratica dell’Arte.
Conobbe, e poi rincontrò molti anni dopo, un altro grande Maestro che poi divenne suo amico, Luigi Zoia. Anche da lui imparò tanto.

Le lezioni del Centro Studi Karate Shotokan di Roma, palestra storica.

Il suo rapporto col Maestro Shirai si dovette forzatamente interrompere a causa del passaggio del CSKS di Roma alla SKKI. Qui, il ragazzino, ormai cresciuto e divenuto a sua volta cintura nera e istruttore, non riuscì mai a entrare in empatia con quell’ambiente così lontano dal suo sentire e dopo quattro anni, seppur a malincuore (era molto attaccato al Maestro Yamada…), decise di tornare alla “corte” del suo, da sempre ritenuto, vero Maestro, il Maestro Shirai.
Il Maestro lo accolse con simpatia e immutato affetto, facendolo realmente sentire di nuovo a casa (immancabili cazziate comprese). Da quel giorno, le loro strade, non si sono più separate.

Il ragazzo, diventato uomo, medico, marito, padre, ripagò il suo Maestro con dedizione e impegno assoluti, pur non essendo un professionista delle arti marziali. Insegnò, a sua volta, l’arte appresa a centinaia di allievi. Quell’uomo conobbe tutti gli aspetti del Karate e dovette anche reimpararlo, a cinquant’anni, quando una malattia mise a dura prova la sua stessa esistenza, portandogli via gran parte dell’udito e del suo equilibrio posturale.
In quel momento, lo stesso Karate, cui lui tanto aveva dato, gli restituì enormi mezzi di adattamento e resilienza. Reimparò di nuovo a fare Karate, con umiltà, costanza e dedizione, le parole del suo Maestro:”Karate miliore è quello di malattia” lo guidarono.

Scoprì nuovi anfratti nella grotta della pratica, posti davanti ai quali, pur passando negli anni precedenti, non aveva notato nulla. Nel buio esistenziale di quella “grotta”, alcune luci si stavano accendendo. La fiducia si stava riappropriando della sua vita. Altre persone lo aiutarono a trasformare una brutta situazione in un’esaltante opportunità di trasformazione.
Quell’uomo guarì, certo non completamente, ma seppur con molti punti di invalidità, tornò a una “nuova” vita, a una “nuova” pratica di Karate.
Decise di mettere a disposizione di tutti la sua esperienza, divenne insegnante in ospedale, nei reparti di oncoematologia pediatrica, lì dove veramente si rischia di perdere l’orientamento nei meandri del dolore, quello vero, quello a volte, non sanabile.

Lo stesso Karate, cui lui tanto aveva dato, gli restituì enormi mezzi di adattamento e resilienza.

Con la forza dei suoi sentimenti e delle sue competenze, trascinò tanti altri Maestri in quell’impresa e contribuì alla crescita in Italia, di un movimento in favore dei bambini ospedalizzati e non, per neoplasia.
Il KARATE INCLUDE, NON DIVIDE, questo il suo riferimento e questo se vogliamo è ciò che di fatto lo ha reso VI dan FIKTA, quindici anni orsono, e VII dan FIKTA, ieri pomeriggio 26 marzo 2022 a Fidenza, al cospetto del suo grande e insostituibile Maestro, di vita e Karate.

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