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Si fa presto a dire difesa personale

Si fa presto a dire difesa personale

Alcune osservazioni sulla difesa personale, necessariamente ma tristemente trascurata, rispetto al gesto tecnico, in tempo di distanziamento e di lockdown.

Recentemente ho pubblicato sulla pagina Facebook di Yoi alcune osservazioni sulla difesa personale, necessariamente ma tristemente trascurata, rispetto al gesto tecnico, in tempo di distanziamento e di lockdown. Sbadatamente ho accompagnato le mie riflessioni con un’immagine che mi ritraeva impegnato a insegnare age-uke in un corso estivo di karate per principianti, tenuto anni or sono in un villaggio-vacanze. L’immagine, associata al titolo, ha fatto scattare il prevedibile riflesso pavloviano in molti visitatori della pagina. Chi mai nella vita reale tira i pugni partendo dal fianco? Come si può impostare la difesa personale partendo dal karate? (manco fosse il ping-pong o la pallavolo) Eccetera eccetera…

A Okinawa il karate è nato proprio per questo scopo e non per competere alle Olimpiadi.

Vorrei qui chiarire alcuni principi, ideologici e metodologici, che ho sempre seguito quando mi è capitato, nel corso degli anni, di insegnare autodifesa a gruppi specifici, di donne ma non solo, interessate a questo aspetto particolare della pratica.

È naturale che io basi un corso di difesa personale sul karate, disciplina che pratico da mezzo secolo e insegno da 45 anni. Se non erro, a Okinawa il karate è nato proprio per questo scopo, e non per competere alle Olimpiadi. Rentan goshin karate-jitsu si intitolava anche uno dei primi libri del maestro Funakoshi, vale a dire “arte del karate come irrobustimento fisico e difesa personale”. L’aspetto “pratico” del karate mi ha affascinato fin dai miei primi passi in questa disciplina, e proprio per imparare a difendermi mi sono iscritto al primo corso che ho frequentato, al Csks di via Bezzezza. A che altro servivano quelle centinaia di pugni scaricati sui makiwara allineati nel corridoio che portava al tatami, se non a raggiungere l’obiettivo di avere “mani e piedi come spade”? Proprio in nome dell’efficacia si è consumato il primo dissapore con la presidenza della Fesika quando, partecipando a una puntata di Rischiatutto, su invito di Mike Buongiorno spezzai con un pugno una tavola di legno che lui sorreggeva. Pochi giorni dopo, durante una dimostrazione al Palalido, il presidente Zoia se la prese con chi “pensava ancora che far karate volesse dire rompere le tavolette”. Tipo il maestro Kanazawa che nel 1966, in una memorabile sfida a distanza col maestro Suzuki, ruppe una tavola dello spessore di sei pollici durante la trasmissione televisiva The braden beat.

Quando insegno specificamente autodifesa, nel vasto repertorio del karate, non solo Shotokan, seleziono quelle posizioni, quelle tecniche e quelle pratiche che meglio si adattano al fine. Ad esempio, anziché hachijidachi, insegno prima di tutto sanchindachi, una posizione piccola, ma più radicata al suolo, che consente di insegnare subito anche a dei principianti un buon uso della rotazione delle anche. Zenkutsudachi verrà subito dopo, perché è adatta per portare un attacco a fondo, kibadachi servirà a irrobustire gli arti inferiori, probabilmente preferirò nekoashidachi a kokutsudachi perché consente dei contrattacchi quasi istantanei col piede anteriore. Tra le parate, in un corso di difesa personale privilegio quelle tecnicamente meno sofisticate, ma in grado di intercettare anche attacchi di “profani”, non solo di altri praticanti di karate: jodan harai uke, uchikomi uke, gedan barai, juji uke. Insegno subito a formare correttamente il pugno, ma contemporaneamente introduco attacchi con la mano aperta e con altre parti del corpo (teisho, shuto, empi, hiraken). I calci che insegno sono pochi e mirati prevalentemente a livello chudan e gedan.

Tra le parate, in un corso di difesa personale privilegio quelle tecnicamente meno sofisticate.

Il solo kata che introduco inizialmente in un corso di difesa personale non appartiene al repertorio dello Shotokan ma a quello del Goju-ryu e del Kyokushinkai. È il kata respiratorio Tensho che, oltre ad allenare la posizione di sanchindachi, insegna la massima contrazione muscolare isometrica, contribuendo all’obiettivo di trasformare a poco a poco il proprio corpo in una corazza.

Una parte importante dell’allenamento è basata sullo studio dei kyusho (punti vitali) e degli atemi waza (tecniche per attaccarli in modo decisivo). Ho sviluppato un esercizio che prevede, alternando gli arti e le tecniche, una sequenza di attacchi da apprendere e praticare fino a che l’esecuzione non diventi automatica. Tale sequenza va applicata sia con un partner (ovviamente col dovuto controllo), sia con un “dummy”, manichino per le arti marziali in vendita online a prezzo contenuto, una versione un po’ più sofisticata del famoso “uomo di legno”. A ciò si aggiunge regolarmente la pratica dei colpi sul makiwara e sul sacco da pugilato.

Non trascuro infine quello che nel karate degli anni 70 era chiamato “kumite-kata”, ovvero le situazioni tipiche della difesa personale (strangolamento, attacco con un coltello, presa alle spalle eccetera). A partire dagli anni 80, con la nascita della ITKF, il kumite-kata è stato sostituito dall’enbu, che nel regolamento arbitrale della Fikta viene definito come “una dimostrazione di combattimento concordato e attuato da due competitori, evidenziante destrezza e abilità, in cui vengono eseguite liberamente delle tecniche di attacco e di difesa in un tempo fissato, con un IPPON finale (TODOME – tecnica definitiva), con un numero di tecniche da 18 a 27 circa.” Mi sembra chiaro che il “realismo”, un requisito imprescindibile quando si tratta di difesa personale, manchi del tutto in questa pratica che deve essere soprattutto spettacolare, come del resto certe applicazioni di kata che si vedono soprattutto nelle gare di kumite sportivo.

Il discorso non finisce certo qui, ma quanto detto finora dovrebbe chiarire che il mio approccio alla difesa personale è meno semplicistico di quello che i miei lettori “pavloviani” hanno immaginato associando il titolo e la foto. Vorrei concludere copiando dai miei appunti i contenuti di un allenamento svoltosi a Milano nel giugno 2006: i lettori comprenderanno così lo spazio e l’enfasi data a ogni parte della pratica. Critiche e suggerimenti sono molto graditi.

  • 15 minuti di corsa, tai-so. 
  • Allenamento al makiwara di gyakuzuki, shutouchi, empiuchi.
  • Allenamento al sacco di maegeri e mawashigeri.

A partire dagli anni 80, con la nascita della ITKF, il kumite-kata è stato sostituito dall’enbu

Kihon in sanchindachi: jodan harai uke, uchi uke, fumikomi udeuke, gedanbarai, juji uke.
Kyusho e atemiwaza (livello jodan e chudan): attaccare i punti vitali con tecniche controllate
Kata Tensho: pratica individuale prima in scioltezza, poi applicando la respirazione ibuki, in fine in coppia: Tori esegue, Uke controlla la sua contrazione muscolare.
Conclusione: tecniche di rilassamento. Debriefing sul significato e sul valore della seduta per ciascun partecipante.

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