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Il sacco da pugile: un prezioso alleato del karateka

Il sacco da pugile: un prezioso alleato del karateka

Più veloci, più potenti, più combattivi e più precisi nelle tecniche grazie all’allenamento col sacco importato dalla boxe.

In tanti si saranno chiesti o avranno domandato ai propri maestri quale attrezzo sia più efficace nell’allenamento di un karateka, agonista o amatore che sia. La risposta sarebbe sorprendente: non la palla svizzera, né la pedana oscillante che mette alla prova l’equilibrio. Nemmeno qualche sofisticato macchinario per allungare i muscoli. Sarebbe invece il negletto sacco da boxe, considerato un giocattolo dai più piccoli frequentatori delle palestre che lo usano spesso per dondolarsi come su un’altalena.

Proviamo a spiegare perché. Per prima cosa il sacco da pugile migliora le combinazioni calcio–pugno: l’interazione con un oggetto in movimento costringe a modulare la tempistica e la presa di distanza, fondamentali quando ci si ritrova contro un ostacolo in carne e ossa, che tenta di schivare gli attacchi. Insomma, più si muove, più il lavoro col sacco diventa simile all’affrontare un essere umano.
Le tecniche che si possono praticare col sacco, perfino con le ginocchia o con la testa, sono praticamente illimitate.
Inoltre, esso non comporta uno snaturamento delle posizioni tradizionali; per esempio, non è necessario alzarsi  sulle punte per tirare un buon pugno come fanno i boxeur, ma si può restare coi piedi ben piantati per terra.

Sembra che il sacco da boxe sia stato introdotto in Giappone intorno al 1910/1915, quando vi sbarcarono i primi soldati statunitensi. Erano in visita nel Sol Levante da potenziali alleati – come in effetti diventarono durante la Prima Guerra Mondiale – e introdussero e diffusero nel Paese il pugilato. La noble art influenzò molto i marzialisti, che ne adottarono alcuni metodi di preparazione.
Il pioniere nell’uso del sacco fu nientemeno che il figlio del Maestro Funakoshi, il fondatore dello stile Shotokan, il quale lo preferiva al tradizionale MAKIWARA. Per chi non lo conoscesse, si tratta di una tavola di legno con un supporto fissato al terreno, di solito nel cortile di casa, con la sommità avvolta da corde, inventato grosso modo a metà ‘800 da Matsumura Sokon. È ritenuto utile in quanto insegna all’allievo ad attaccare con forza e, contemporaneamente a ritrarre rapidamente il pugno o la gamba, prima che la spinta di ritorno del sostegno possa danneggiarlo in qualche modo. Così s’impara a non allungare troppo in fuori un arto, che altrimenti potrebbe essere afferrato o colpito dall’avversario. Non ha però la caratteristica di sostituire l’uomo, di fare quasi da sparring partner. Dovrebbe servire piuttosto a condizionare la mente dell’atleta, rendendolo capace di sferrare un pugno decisivo, cosa che inizialmente avrebbe dovuto compensare la bassa statura tipica del karateka giapponese medio. Per alcuni praticanti l’esercizio regolare, effettuato in pubblico con questo strumento, diventò addirittura uno spettacolare sfoggio di virilità.

Yoshitaka però, ai suoi tempi aveva notato anche che il sacco riesce ad assorbire completamente il pugno, a differenza del makiwara su cui s’impatta solo con le prime due nocche – seiken. Egli adoperava sacchi molto pesanti riempiti di sabbia, dato che gli interessava sviluppare la potenza. Da allora il sacco da pugilato è diventato un ospite fisso dei dojo, arrivando a modificare la regola propria di Okinawa, secondo la quale i calci andavano diretti soltanto sotto la vita del bersaglio.
In alcuni casi s’è fatto ricorso a un attrezzo ibrido, il sagi-makiwara o sacco sospeso, simile a quello della boxe, ma più piccolo, pesante al massimo 50 kg.
Reputato molto versatile, potrebbe essere riproposto con successo come valido ausilio nell’allenamento.

Oggi le arti marziali, karate compreso, privilegiano la precisione nel colpire e la velocità nei movimenti rispetto alla potenza, subendo l’influsso del ‘filone cinese’ e della filmografia di genere. È vero però che senza la necessaria potenza queste qualità non garantiscono un esito positivo dei combattimenti e sviliscono le tecniche, riducendole a “movenze di danza”.
I principianti non hanno da preoccuparsi d’essere subito perfetti col sacco da boxe e nemmeno i bambini, che possono accostarsi senza paura e gradatamente a questo allenamento.
È necessario sperimentare, magari ispirandosi a routine di altre discipline come la boxe thailandese, alternando per due/tre minuti combinazioni con pugni-calci-ginocchia-gomiti e mantenendo un minimo di costanza nell’applicazione, in modo che l’attività abbia un senso.
C’è da tener presente che il training non funziona a dovere quando si è molto stanchi e si colpisce il sacco ‘a casaccio’. E che – questo vale per i praticanti di kumite – l’obiettivo sarà la facilità nel realizzare il cosiddetto colpo di grazia, il knock out. Per chi invece sceglie il kata individuale, il lavoro al sacco offre la possibilità di integrare al proprio allenamento di base i vantaggi derivanti da una maggiore combattività.

 


Note bibliografiche
Michael Clark, L’arte dell’Hojo Undo: aggiungere potenza alle tecniche di combattimento del karate, Ed. Mediterranee.
Mark Bishop, Karate di Okinawa:maestri, stili e tecniche segrete, Ed. Mediterranee.

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