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Il dojo, un luogo per “diventare”

Foto di Alessandra Capraro

L’arte marziale è un mezzo di perfezionamento del sé ed è un’epifania che va vissuta in prima persona; non è sufficiente che qualcuno te lo spieghi.

Ho imparato cosa fosse un dojo ben prima di capire il significato di un’arte marziale.
Praticavo il karate Shotokan in una palestra con vista mare. Per arrivare all’ingresso dovevo percorrere un vialetto delimitato da due alti muri; i passi rimbombavano leggermente tutte le volte che lo attraversavo. Ricordo molto bene quel suono, ma anche i profumi, il modo in cui la luce colpiva il pavimento in legno della sala principale, la scrivania all’ingresso, le foto appese al muro, foto di persone che praticavano karate a piedi nudi anche sullo sterrato, negli anni d’oro, quando tutti volevano essere artisti marziali.

… il nostro karate pieno di accenti, di direzioni severe, di contrazioni, animato da una forza che si sviluppa dal suolo per esplodere nel cielo.

Ricordo che ogni occasione era buona per imparare qualcosa: l’importanza di essere puntuali, di indossare un karategi pulito, di legare i capelli durante l’allenamento, di lavarsi i piedi prima di salire sul tatami; l’importanza della respirazione, dell’uso dell’anca, dell’atteggiamento mentale; il rispetto dei compagni e dei gradi superiori, il massimo controllo delle tecniche, il caricamento delle parate.
In quel luogo ho imparato che un dojo è un piccolo mondo, fatto di cose, di persone e di regole. Nel dojo ho ricevuto tutto il bene che la mia maestra poteva darmi, espresso con l’incoraggiamento, il rimprovero, il sorriso, la serietà. Sono passati sedici anni da quando ho iniziato la pratica del karate; le regole del dojo mi seguono ancora e io cerco di seguire loro.

Ero un 1° dan quando ho incontrato il karate del Maestro Shirai, occasione che è stata di fondamentale importanza nella mia vita. Un karate potente, preciso, studiato nei minimi particolari, che unisce il gesto tecnico alla spiritualità del qui e ora. Un karate che non è tecnica, ma un modo di essere, un’interpretazione della bellezza, del rigore, della presenza mentale, del sacrificio, della fatica.
Durante uno stage di qualche mese fa i Maestri Cardinale e Acri stavano eseguendo per noi i calci fondamentali dello stile; uno calciava e l’altro assorbiva il colpo, aiutando il compagno. L’esercizio doveva essere lento, ma forte, controllato, ma pieno di energia, fluido e tecnicamente corretto. Inutile dire che i due maestri si sono dimostrati spettacolari nella loro performance, tanto che il Maestro Shirai, che di tutto si accorge anche in una sala gremita, ci chiedeva: “Li vedete? Vedete com’è bello il karate? E allora perché voi non fate uguale?”.

Ho scoperto il M° Shirai grazie a Luca Mossini, mio maestro da più di dieci anni. Ho cominciato ad allenarmi con lui dopo circa un anno di inattività forzata; provenivo da un’altra federazione e d’un tratto avevo di fronte persone adulte che sapevano affondare i colpi. Era tutto davvero difficile per me, diverso, nuovo, e vi assicuro che avrei mollato se non fosse stato per le regole del dojo che avevo imparato e che in quel momento mi sostenevano. Proprio in quel periodo credo di aver sfiorato per la prima volta il senso di un’arte marziale, esattamente quando mi sembrava di non essere all’altezza.
L’arte marziale è un mezzo di perfezionamento del sé ed è un’epifania che va vissuta in prima persona; non è sufficiente che qualcuno te lo spieghi. 

… il dojo resta un simbolo, una prova tangibile di quello che le persone possono fare insieme.

Oggi, con il M° Mossini mi alleno nella palestra Shin Ki Tai di Parma, tirata su da lui, assieme all’amico Luigi Tosini e ad altre preziose mani.
All’inizio c’era solo un enorme capannone abbandonato. Ora c’è un dojo. Ha il pavimento in legno, posato a mano listone per listone, una porta d’accesso che raffigura un torii, l’effige del Maestro Funakoshi appesa al centro della parete principale, assieme ai kanji di Shin Ki Tai (Spirito, Mente, Corpo) e Shun Ku Kan (Verso la vetta) e alle foto dei Maestri Kase e Shirai. Una seconda sala, più piccola, unisce modernità e tradizione grazie al pavimento in tatami e alla presenza di attrezzi per la ginnastica funzionale. 

È un luogo al quale si accede senza scarpe, in segno di rispetto. Per alcune persone questo è un fatto incomprensibile. Qualcuno prova disagio o addirittura fastidio all’idea di lasciare le scarpe fuori e camminare scalzo. Ma questa è la prima regola da seguire. È una regola del dojo.

Shin Ki Tai è stata inaugurata nel 2015; è una palestra “giovane”, ma ha già vissuto i primi addii, perché la vita è un’altalena e talvolta si scelgono altre strade. Qualcuno va, qualcuno arriva, e ti accorgi che in ogni caso tutto è fonte di arricchimento.
All’inizio c’erano il karate e il kung-fu, due arti marziali estremamente diverse nella forma, nell’uso dell’energia, nei colori, nelle divise; eppure, proprio da questi due mondi è nata l’idea di Shin Ki Tai, di un posto dove praticare.
Ricordo la fluidità estrema dell’arte cinese, mani e piedi uniti insieme e allo stesso tempo slegati, mossi in senso circolare, dinamico, come seguendo un ritmo infinito che forse solo l’idea della natura può spiegare. C’eravamo noi, con il nostro karate pieno di accenti, di direzioni severe, di contrazioni, animato da una forza che si sviluppa dal suolo per esplodere nel cielo, un karate che si esprime con il deai e con lo zanshin. Da allora – da quell’inizio incerto, ma desiderato –, alcune cose sono cambiate, ma il dojo resta un simbolo, una prova tangibile di quello che le persone possono fare insieme. 

Le arti marziali hanno talvolta la capacità di donare a chi le pratica il senso dell’azione, del fare, dell’agire. Questo è un merito che riconoscerò sempre al M° Mossini che, quando decide, fa. Shin Ki Tai non esisterebbe, altrimenti. Contenitore di forme e spiritualità differenti, il dojo ospita anche l’Aikido del M° Marino Ablondi, la Capoeira del M° Alain Ganga, il Battojutsu del M° Maurizio Colonna, il Tacfit dell’istruttore Mario Rabboni, il Pilates di Mikol Garulli, lo Shiatsu di Valentina Torresi e un corso di difesa personale.
L’Aikido sviluppa un’energia che si muove in un senso per ribaltarsi nell’altro; il Battojutsu è un’arte che fa dell’estrazione rapida della spada una specialità raffinata e potente; la Capoeira mostra a tutti che si può cantare, danzare e combattere senza mai perdere la concentrazione; il Tacfit insegna a qualunque atleta che la ginnastica funzionale migliora la salute, la performance sportiva e la resistenza allo stress; il Pilates e lo Shiatsu sono pratiche che ruotano attorno al benessere psico-fisico; il Karate è esempio di un atteggiamento mentale rigoroso. Forse i metodi di insegnamento possono essere differenti, ma infine i principi che contano sono affini.

Non importa quale arte marziale pratichi, ma è fondamentale come la impari, come viene insegnata, il perché viene tramandata.

Quando la disciplina – intesa in senso lato – diventa tua, questa viaggia con te ovunque e ti accompagna in ogni genere di circostanza; le regole di convivenza, condivisione e rispetto che segui nel dojo diventano parte del vivere quotidiano, così come noi stessi portiamo nel dojo l’educazione che abbiamo ricevuto fuori. È una relazione a doppio filo, un dare-avere che può trasformarci, un catalizzatore che può farci diventare quello che vogliamo essere. 

Diventare. Trovo che sia un verbo bellissimo. Ha dentro l’idea del movimento, del futuro che si fa avanti poggiando sugli strati del passato, mutando in qualcosa di originale, unico, che è figlio delle nostre personali esperienze e attitudini. C’è dentro l’idea dell’andare, dell’avversarsi, dell’avvenire.

Diventare. È un verbo che contiene persino il vento, una forza eterea che può smuovere ogni cosa. Non importa quale arte marziale pratichi, ma è fondamentale come la impari, come viene insegnata, il perché viene tramandata.
Ogni volta che nel dojo di Shin Ki Tai sono entrata in contatto con un’arte marziale o con una disciplina diversa dal karate, ho percepito questo vento, questa energia che è in parte fisica, in parte latente, una corrente che si diffonde in termini anche filosofici, in termini di una ricerca che non è solo rivolta alla perfezione tecnica, ma anche all’emozione, con significati interiori che motivano la pratica stessa, il procedere verso stati di crisi – quando ci si scontra con cose nuove – e stati di euforia, quando finalmente qualcosa passa, qualcosa funziona, si illumina. 

Un dojo è uno spazio che può ospitare eventi, grazie allo sforzo congiunto degli insegnanti che vogliono rendere unica e completa l’esperienza degli atleti che lo frequentano. Così, negli ultimi due anni ho potuto incontrare Umberto Pelizzari, campione di apnea, che ci ha guidato in una interessante lezione sulla respirazione e sull’uso del diaframma; Alberto Gallazzi, massimo esponente del Tactical Fitness in Europa e nel mondo, che ha tenuto un workshop di una giornata dedicato alla ginnastica funzionale e all’uso della clubbell; maestri di karate della FIKTA che hanno messo a disposizione la loro esperienza a nostro beneficio; Andrea Lavaggi, bronzo ai mondiali di Grappling del 2017, che ha condotto un seminario per il gruppo di Brazilian Jiu Jitsu di Romano Mainardi; il M° Chiquinho, che ha animato il dojo con le acrobazie della Capoeira; la Dott.ssa Arianna Messina, che ha preparato un incontro sulla nutrizione per gli sportivi; il team leader Marcello Toscano, che ha dato vita a un energico seminario di Tactical Fitness.
Queste iniziative, assieme ad altre fuori porta, come l’organizzazione di gare, di esibizioni e allenamenti in pubblico, aiutano a rafforzare i legami fra persone e migliorano la vita sportiva e sociale di tutti.

Il dojo, il luogo dove si segue la Via, è una scuola, una casa, un posto in cui vivere esperienze nuove, disarmanti, affascinanti, divertenti, ma è anche una macchina che deve funzionare per mantenersi in vita.

Il dojo, il luogo dove si segue la Via, è una scuola, una casa, un posto in cui vivere esperienze nuove, disarmanti, affascinanti, divertenti, ma è anche una macchina che deve funzionare per mantenersi in vita. Il dojo è un luogo vivo, animato dalle persone che lo frequentano e influenzato da quelle che decidono di non tornare. Se la Via delle arti marziali è un cammino, così anche il dojo è un elemento che diventa, che si modifica, si adatta, si aggiorna in relazione all’esperienza; il dojo segue una sua strada, riflette quello che accade al suo interno e restituisce un’emozione.
Come persona, come karateka e come amante dello sport in generale è proprio l’emozione che cerco, quella scintilla capace di motivarmi. Che sia rabbia, frustrazione, amore, frenesia, gioia, perplessità, è sempre l’emozione a definire l’impegno che riesco a mettere nelle cose. Anche la noia e la tristezza muovono i fili al pari delle sensazioni positive. 

Spesso mi alleno mentre ho uno stato d’animo avverso; ho scoperto con una certa sorpresa che il cattivo umore non è sufficiente a fermare il bisogno di muovermi. Forse qualche anno fa sì, ma non oggi. Anche il dojo ha dato un contributo, in quanto luogo di espressione del sé, contenitore di emozioni – le mie e quelle degli altri – che aumentano la profondità della mia esperienza.
Nel dojo c’è spazio per la sfida, per l’amicizia, per la riflessione, per la risata, per lo scontro, per il confronto, per il silenzio. Nel dojo ho incontrato persone capaci di insegnarmi cose sul mio stesso conto, aspetti di me che non conoscevo o ignoravo. Questo costa fatica, ma ripaga sempre.
È così che deve essere un dojo.

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