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Lo specchio interno: il Karate-do nell’adulto principiante

Lo specchio interno: il Karate-do nell’adulto principiante

Il praticante che sceglie di indossare il karategi diventa carta di riso sui cui il maestro versa i suoi colori e il “do” crea il karateka.

Le persone attraverso la relazione e l’attività apprendano un nuovo modo di essere e pensare costruendo così nel tempo se stessi” (Bertrando e Defilippi).

Nell’età adulta (dal lat. adultus, part. pass. di adolescĕre «crescere») l’operazione del cambiamento è sempre difficile: abitudini, formae mentis e complessità della vita non sempre ci permettono di padroneggiare la nostra evoluzione.
Quando si parla di cambiamento “psico-emotivo” si può fare riferimento al cambiamento di una struttura profonda della personalità, a un cambiamento del modo di stare con gli altri (atteggiamento relazionale), oppure a un cambiamento delle premesse implicite (Bateson, 1972), all’emergere di nuove Riflessioni Sistemiche (White, 1992), a un cambiamento di linguaggio (dis-soluzione di problemi – Anderson e Goolishian, 1992) o, infine, a un cambiamento dello stato emotivo.
Il compito che l’adulto deve imporsi nella sua veste etica, in tal senso, è di vigilare il più possibile sulla propria condotta affinché la vita non sia un luogo di ripetizioni e di abitudini, ma un luogo creativo, di esperienze che si rinnovano nei loro processi e di cambiamenti costruttivi della personalità.

Un percorso in cui si intersecano il proprio ciclo di vita, la maturità psicofisica e la maturità nella ricerca della “via”.

Un’occasione che difficilmente viene colta, a causa di pregiudizi, etichetta-menti e dalla paura di mettersi in gioco, è la decisione di iniziare da adulto la pratica del Karate-do, presentandosi con una “valigia” vuota di competenze, ma ricca di curiosità, come un piccolo bambino che impara a capire il proprio corpo in linea con i suoi vissuti emotivi, coltivando una “messa a punto” di cosa sente, cos’è in grado di percepire, fino alla capacità di saperlo e/o imparare a esprimerlo in maniera adeguata al proprio sé.
Dobbiamo pensare, in tale modalità, che l’acquisizione del punto di vista, o interpretazione della realtà, può essere destrutturata qualora nel movimento corporeo o nelle tecniche a confronto la dimensione di forza e debolezza assume una nuova valenza: sono IO in quanto mi riconosco nell’esperienza psicofisica diretta e non soltanto verbalizzata o dal rispecchiamento dei gruppi che vivo quotidianamente.

La pratica del Karate-do è un “processo” che coinvolge tanto gli allievi quanto i maestri, due figure che possiedono una vita propria, che si articolano in una “danza” mutevole col passare del tempo, aggiungendo ciò che manca e sottraendo ciò che è superfluo, in un percorso in cui si intersecano il proprio ciclo di vita, la maturità psicofisica e la maturità nella ricerca della “via”.
L’insegnamento del Do attiene alla dimensione del “prendersi cura”, alla figura del méntore e alla genitorialità in senso lato, che si declina in forme molto diverse: dall’accudimento tenero e affettivamente contenitivo, alla capacità di essere fermi e alle volte persino duri nel ribadire limiti e regole fondamentali e/o per allenare l’attitudine al sacrificio.
Un allievo che sente di avere una “base sicura”, ovviamente, ha la possibilità di muoversi nel dojo con animo aperto e sperimentare ed esplorare  nell’incontro con gli altri allievi e con il Maestro limiti e debolezze, ma anche, soprattutto, possibilità, capacità e passione, nella ricerca continua di un nuovo modo di stare nel mondo.

Entrare nel Dojo del Maestro a cui ci si affida indossando il karategi, significa scegliere di “diventare carta”.

Tale aspetto nel Karate-do s’intreccia col percorso di un allievo che viaggia in equilibrio tra il “saper fare” e il “saper essere” al fine, poi un giorno, di intraprendere la propria “via” e diventare a sua volta un Maestro. Tutto ciò viene mirabilmente co-costruito attraverso la trasmissione da parte del Maestro delle proprie conoscenze tecniche, in linea con lo spirito dell’allievo.
Ma come dovrebbe porsi un allievo/discente verso il proprio maestro? Con quale animo ogni praticante dovrebbe approcciarsi alla pratica del karate in modo da recepire ciò che il “do” decide di dargli?
Immaginiamo la pratica del Karate-do come una sorta di “specchio interno” in cui riflettersi per rendere possibile un continuo lavoro con il proprio sé, dove il “conosci te stesso” di Socrate può essere interpretato come “conosci la tua storia per decidere il tuo cambiamento”. 

Tale concezione viene resa sottilmente all’allievo attraverso un lavoro che inizia con l’abbattimento delle disuguaglianze socio-economiche, culturali e dei pregiudizi, indossando la “seconda pelle del praticante” che resterà sempre immutata nel colore, il karategi: «…ottenuto dall’unione di pezzi di tessuto rettangolari (kimono), i quali non esaltano le curve del corpo come tendono a fare gli abiti occidentali: al contrario le nasconde completamente e chi lo indossa deve muoversi con grazia e ponderatezza, dimostrando le sue doti profonde».

L’uso del karategi bianco, in questo caso, acquista un significato simbolico, diventando “un foglio di carta” su cui l’altro scrive e deposita i suoi pensieri.
Entrare nel Dojo del Maestro a cui ci si affida indossando il karategi, significa scegliere di “diventare carta”: si diventa “foglio di carta” quando si lascia che l’altro faccia scorrere la propria penna in libertà, permettendo alle sfumature di creare piccole difficoltà nell’espressione di una storia di vita.
L’uomo che sul tatami sta di fronte all’altro uomo diventa “carta” solo se si fa paziente, foglio bianco pronto a recepire ciò che gli viene detto, senza sovrapporre il proprio pensiero a ciò che l’altro vuole rivelare di sé, che siano sentimenti, emozioni, stati d’animo, argomentazioni, senza prevaricare con le proprie ragioni il discorso dell’altro. Con il passaggio di “cintura”, in questo caso, si dichiara il raggiungimento del livello psicofisico e tecnico necessario per raggiungere nuove competenze, dove l’obiettivo principale è di costruire e rafforzare l’autodisciplina, la volontà, la perseveranza, la comprensione e la  convivenza con altri, elementi senza i quali non è possibile progredire, in sostanza la possibilità di essere se stessi (il bianco) con qualcosa in più (il colore della cintura).

Il “conosci te stesso” di Socrate può essere interpretato come “conosci la tua storia per decidere il tuo cambiamento”.

All’inizio della pratica, le proprie “stanze interne” corrispondono a una mente confusa e proiettata verso un bisogno di conoscenza per il cambiamento, intersoggettività che si basa sui concetti di empatia, di identificazione proiettiva e, più in generale, di quella ricerca di equilibrio nel campo intersoggettivo tra allievo e maestro che è il fondamento della relazione. (Stern)
In tal senso mi piace spesso fare questa similitudine… Come un pittore sceglie con pazienza la propria tela su cui far cadere i propri colori attendendo che l’arte faccia il resto, così il praticante che sceglie di indossare il karategi diventa carta di riso sui cui il maestro versa i suoi colori e il “do” crea il karateka.

 

BIBLIOGRAFIA
Bertrando P., Defilippi O. M., Terapia sistemica individuale: effetti di una tecnologia del sé, Terapia Familiare, 2005.
Boscolo L., Bertrando P., Fiocco P.M., Palvarini R.M., Pereira J., Linguaggio e cambiamento. L’uso di parole chiave in terapia, Terapia Familiare, 1991.
Werner L., BUDO. La via spirituale delle arti marziali, Edizioni Mediterranee, 1996, Roma.  
Varchi “Tracce per la psicoanalisi”

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