728 x 90

Anche se non ho fatto apposta, mi sento in colpa!

Anche se non ho fatto apposta, mi sento in colpa!
Foto di Fabrizio Bagnoli

In palestra o nella vita quotidiana, culturalmente sembrano ancora le donne le maggiori vittime del senso di colpa.

(In KarateDo n. 35 lug-ago-set 2014)

Laura, Alessia e Marta sono, come si suol dire, amiche per la pelle, amiche del cuore, una triade vincente che qualcuno ha paragonato a quella, più famosa, dei Tre Moschettieri. Abitano in tre città diverse; non riescono a frequentarsi spesso come vorrebbero, per i rispettivi impegni di studio e di lavoro, ma si incontrano, da anni, ad alcuni appuntamenti fissi, come i campionati Regionali e Nazionali, disputandosi il podio per kata e kumite.
Laura, Alessia e Marta si sono conosciute ai corsi del CSAK, vari anni or sono, accomunate dalla passione per il Karate. E sono ancora molto amiche nonostante fra loro sia successo un po’ di tutto: Alessia non ha controllato un kizamitsuki che è finito sui denti di Laura… un uraken ha terminato la corsa sul naso di Marta…
Sono cose che succedono, soprattutto quando si pratica il Karate anziché la danza classica.
In questi casi, la coscienza di non avere “fatto apposta”, non per cattiveria, non per volontà di fare del male, è necessaria al sollievo, ma non sufficiente. Anche se l’amica assolve, magari riconoscendo un proprio errore (avanzare con il viso e le spalle in avanti, essere stata troppo lenta nella parata), la colpevole piange, non per la squalifica in gara, ma per il senso di aver fatto “qualcosa di male” per cui sentirsi colpevole. Per il desiderio, dolosamente irrealizzabile, di poter riavvolgere quel nastro e cambiare la portata di quel pugno o di quell’uraken.

Rispetto alla vergogna, il senso di colpa è un sentimento molto più intimo e privato.

Rispetto alla vergogna, il senso di colpa è un sentimento molto più intimo e privato.
Gli “altri” possono anche non essere a conoscenza dell’azione per cui mi rimprovero, di ciò che ho fatto e per cui mi sono pentita, o di ciò che ho omesso di fare. Oppure possono avermi perdonato, assolto. Nella dinamica del senso di colpa non è centrale il dito accusatore di un giudice esterno, ma è determinante lo sguardo del nostro Io interiore, che si sviluppa molto precocemente: anche bambini molto piccoli sperimentano il senso di colpa per le loro azioni “malvagie”, anche quelle che non hanno avuto nessun testimone, e addirittura per i loro “cattivi pensieri”.
Se i genitori o gli insegnanti premono eccessivamente sul senso di colpa del bambino, lo rimproverano continuamente e lo accusano aspramente, anche per quanto non è riconducibile a una sua competenza, il piccolo può diventare eccessivamente passivo, obbediente dalla figura d’autorità e dipendente dal giudizio dell’ambiente circostante, oppure risentito per l’ipocrisia che, inevitabilmente, coglierà attorno a sé, relativa a un diffuso “predicare bene e razzolare male”.

Il primo autore che si è occupato della moralità e del senso di colpa nei bambini è stato il ginevrino Jean Piaget (1932), ponendo ai piccoli un quesito su cui anche noi adulti ci possiamo interrogare: è più colpevole chi rompe una tazza “apposta”, scagliandola a terra con forza per far dispetto alla proprietaria, oppure chi rompe dodici tazze per sbaglio, perché inciampa nel tappeto o nel gatto e fa “volar via” tutto il vassoio, prima di rovinare a terra?
Noi adulti non abbiamo – quasi mai – dubbi: chi fa qualcosa di male “apposta” è più colpevole di chi fa del male “per sbaglio”, senza dolo. Anche la legge ci viene in aiuto: un omicidio è sempre un omicidio, ma può essere colposo – con le relative attenuanti – o volontario, o addirittura premeditato!
Invece, un bambino fino a 11-12 anni (ai tempi di Piaget, attualmente i bambini sono diventati molto precoci) dirà: è più colpevole chi ha commesso il danno materiale più ingente, quindi chi ha rotto 12 tazze, senza stare a valutare le intenzioni e le circostanze.

Questo tipo di senso di colpa è un acerrimo nemico dell’auto-difesa.

Un sano senso di colpa, quando abbiamo affondato gyakutsuki nelle costole fluttuanti dell’avversario, presi dalla foga del kumite, fa di noi delle persone consapevoli degli altri, dei loro spazi, dei nostri limiti; fa di noi persone che si sanno muovere nelle dinamiche relazionali rispettando le regole del vivere civile.
Esistono individui che sono – o sembrano – incapaci di provare alcun senso di colpa, ma si tratta di soggetti pericolosi quali psicopatici, sociopatici, sadici e perversi in generale, elementi da cui rifuggire quanto prima con un movimento di sana auto-difesa e auto-tutela.

Più spesso il senso di colpa imbocca strade e sentieri sconvenienti, quindi diventa eccessivo e pervasivo, soprattutto nella popolazione femminile.
Ci sono donne che si sentono in colpa per tutto, anche per essere nate (!), ritenendo di aver guastato la vita della propria madre o di entrambi i genitori, con le limitazioni (nella carriera, nella vita sociale) che la loro nascita ha comportato.
Bambine che si sentono in colpa per ogni “respiro”, ogni desiderio o capriccio, per ogni iniziativa autonoma e per ogni litigata dei genitori. Adolescenti e ragazze che vivono come una colpa il desiderio di crescere e diventare donne, di piacere ai ragazzi, di baciarne uno, quello prescelto, e di non essere molestate dagli altri, di non aver voglia di studiare matematica e di voler credere nei propri sogni.
Donne che si sentono in colpa per una fetta di torta che sciupa la dieta, per le disavventure di mariti e compagni, per non essere mai “abbastanza” …belle, intelligenti, gradevoli, servizievoli, efficienti. Per non riuscire a trovare un lavoro che dia ossigeno al bilancio familiare, oppure per lavorare fuori casa e dover affidare i figli ad altre mani, ma anche, essendo nella generazione “di mezzo”, in colpa per non potersi occupare dei genitori, divenuti anziani e bisognosi di assistenza e di cure. In colpa per gli insuccessi scolastici dei figli e per i funesti accidenti nella vita di costoro: lavorativi, relazionali e così via.
Un pomeriggio per se stessa, dalla parrucchiera, dall’estetista o semplicemente a chiacchierare con un’amica, diventa una tragedia: è una quantità di tempo perduto che avrebbe potuto essere meglio impiegato in qualsiasi altra attività riguardante la casa (c’è sempre qualcosa da stirare o qualcos’altro da pulire) e gli altri significativi: c’è sempre un figlio da affiancare nei compiti, c’è sempre un genitore per cui sbrigare una commissione.
Molte donne, ahimé, si sentono anche in difetto personale per la violenza che subiscono, declinata in tutte le sue forme.

Molte donne, ahimé, si sentono anche in difetto personale per la violenza che subiscono.

Questo tipo di senso di colpa è un acerrimo nemico dell’auto-difesa.
Un piccolo esercizio – spesso non semplice – può essere una goccia nel mare, ma può anche essere quella goccia che fa la differenza: ogni donna che si sia riconosciuta, almeno in parte, nel profilo tracciato poc’anzi, può mettersi davanti allo specchio – reale e mentale – e ripetere a se stessa: “Non è stata colpa tua. Non è sempre colpa tua, non è tutta colpa tua. A volte le cose succedono e basta.”
Il passo successivo sarà progettare un’espiazione sana per il proprio senso di colpa: un’azione propositiva che mi permetta, senza danneggiarmi, di rimediare al male che ho fatto, di “risarcire” la mia vittima o di “restituire” il maltolto.
Il senso di colpa può essere un buonissimo trampolino di lancio per un momento di crescita personale, se vissuto nel suo versante propositivo, ossia se il punto di vista si sposta un passo oltre: cosa posso fare, adesso, che sia utile e funzionale a risolvere la situazione o almeno a migliorarla?

 

NOTA BIBLIOGRAFICA
Piaget, J. (1932), The Moral Judgment of the Child. Kegan Paul, Trench, Trubner and Co., London. 

Ti potrebbe interessare anche:

Articoli recenti

I più letti

Top Autori