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La fragilità bio-psico-sociale (parte 1)

La fragilità bio-psico-sociale (parte 1)

Tutti noi portiamo il dono e il peso di alcune fragilità.

In un contributo risalente a qualche anno fa, sostenevo come la prima Auto-Difesa femminile consistesse nel non arrendersi al ruolo di vittima. Più recentemente mi sono occupata di Zona di Sviluppo Prossimale e di scaffolding, concetti senza dubbio esportabili nell’Auto-Difesa femminile: cosa farebbe una donna che ammiriamo e che prendiamo a modello ed esempio, se si trovasse in una certa situazione? Anzi, cosa immaginiamo/ipotizziamo che farebbe, o che avrebbe fatto, in passato? Quali consigli pensiamo avrebbe saputo darci, per le situazioni incresciose che ci riguardano?
Cosa ci ha insegnato quella donna, se l’abbiamo conosciuta realmente?
Con quante ombrellate o “borsettate” la nostra compianta Nonna risolverebbe quella controversia con il vicino di casa che ci molesta, o con quali parole, più affilate e taglienti di una spada, saprebbe liquidare in un battibaleno le presunzioni della cattiva persona incontrata per lavoro?
A noi, invece, sembra di restare a farci avvelenare dal rimuginio dei pensieri negativi, dalla paura delle possibili conseguenze, dalla rabbia impotente.

Almeno una volta nella vita tutti ci siamo sentiti fragili, vulnerabili, inadeguati, in difficoltà o presi in trappola… e lo eravamo veramente!

Credo che nessuna delle nostre nonne fosse una specie di Wonder-Woman e la loro forza d’animo non andava a scapito della femminilità, anzi, caso mai proprio il contrario: con quanta forza le Nonne hanno affrontato, ad esempio, il periodo della guerra, dove avranno vissuto senz’altro momenti di sconforto e di afflizione… Ma noi preferiamo ricordarle così: con quell’ombrello, quella borsetta e quella grinta con cui si sarebbero difese da ogni malintenzionato.
Certo, erano altri tempi, quando non si rischiava di incorrere in guai giudiziari per eccesso di legittima difesa e quando ci si rifletteva bene prima di sporgere una denuncia. Eppure, il loro ruolo sociale era comunque connotato da fragilità e subordinazione a una figura maschile, a un ruolo preconfezionato di angeli del focolare domestico, di mogli e di madri.

Possiamo prendere a modello e ad esempio, per la nostra Zona di Sviluppo Prossimale, altre grandi donne del passato che si sono emancipate da questa subordinazione e dai ruoli fissi e codificati che questa portava con sé: coloro che “ce l’hanno fatta” nella vita, senza rinunciare alla propria femminilità. Ad esempio le grandi scienziate e nomino soltanto, per esigenze di spazio, Rita Levi Montalcini e Margherita Hack, o le grandi regine del passato come Nefertiti e anche se i dati storici su di lei sono scarsi e controversi, appare plausibile che ella abbia governato a fianco del marito, il faraone Akenaton, non subordinata a lui.
Ricordate “Giaele e Sisara”? Per esempio quando a scuola per amore o per forza abbiamo studiato Marzo 1821 del Manzoni: “Quel Dio (…) che in pugno alla maschia Giaele pose il maglio e il colpo guidò”, oppure quando ce ne siamo occupati in varie opere pittoriche della storia dell’arte italiana. Abbiamo imparato che il riferimento era a un brevissimo passo biblico (Libro dei Giudici), in cui si narra come il generale Sisara avesse cercato rifugio nella tenda di Giaele, moglie di Cheber il Kenita. La donna gli offrì ospitalità e del latte; quando Sisara fu addormentato, Giaele lo uccise: con un grosso martello gli conficcò un picchetto di tenda nella tempia, fino a farlo penetrare in terra, liberando così il suo popolo e quello israelita dall’oppressione dell’esercito nemico.
Erano altri tempi e forse, chissà, il fatto non è storico, ma leggendario.

Nella nostra vita quotidiana e contemporanea, accade – talvolta o spesso – in ambito scolastico di dover sottostare alle prepotenze di un docente che sfoga sugli alunni delle frustrazioni personali e familiari. Qualcuno purtroppo lavora come insegnante sentendosi un fallito, che non è riuscito a ottenere un’occupazione “migliore” in altri ambiti verso cui nutriva aspettative e vocazioni, e costui non sarà certo un buon insegnante, non riuscirà certo a trasmettere ai suoi alunni motivazione e passione per la sua materia, anzi finirà per sfogare sugli studenti – soggetti sottoposti a lui e fragili nel ruolo rispetto a lui – il proprio senso di impotenza e di inutilità.
Qualcosa di molto simile accade anche in ambito lavorativo: spesso, consapevoli o meno di cosa suggerirebbe la teoria dell’Autodifesa, ci rassegniamo a sottostare a un “povero di spirito” che ci tiranneggia e ci dedica angherie di varia natura. E questo non certo per masochismo, ma per una serie di condizioni di fragilità, quali il timore di perdere il posto di lavoro, quindi lo spettro della disoccupazione, soprattutto in tempi di crisi, il dubbio di “restare a spasso” e non trovare un altro impiego, il terrore di perdere quello stipendio, magari non cospicuo, che tuttavia è necessario all’economia domestica.

Negare le nostre fragilità non è di molto giovamento; è più proficuo conoscerle, lottare per superarle (dove possibile) e in alternativa imparare a conviverci.

Invece, dovrebbe funzionare molto diversamente rispetto alle persone che scegliamo di frequentare: il partner, il gruppo di amici.
Qui la propria Auto-Difesa non dovrebbe essere negoziabile: non si transige sul rispetto in un ambito di scelta, non si scelgono persone che ci danneggiano, ma la realtà non è così semplice e lineare. Molte donne, pur di non restare sole, si assoggettano alla compagnia di gruppi molto conflittuali, oltre che a relazioni superficiali e dolorose, per non restare a casa il sabato sera a leggere un libro, come una “sfigata”, mentre il sabato sera “tutti” escono.
Questa adesività passiva non riguarda solo l’adolescenza, fase della vita in cui è maggiore il peso dell’appartenenza a un gruppo di pari, ma, a ben vedere, non riguarda nemmeno soltanto la componente femminile della popolazione!
Quali e quante sfaccettature può assumere la fragilità…

  • alcune sono “bio”, ossia legate a condizioni vitali e naturali;
  • altre sono “psico”, legate a una condizione personale del soggetto, a un momento di vita particolare e transeunte oppure a una caratteristica più duratura;
  • altre, infine, sono “sociali”, correlate ai ruoli che ci vengono imposti, suggeriti o inculcati, anche implicitamente, nel luogo – fisico e mentale – di vita, dalla cultura e dalle sotto-culture di appartenenza, in primis quella familiare, dalla tradizione, dagli usi e costumi.

Almeno una volta nella vita tutti ci siamo sentiti fragili, vulnerabili, inadeguati, in difficoltà o presi in trappola… e lo eravamo veramente!
Questa condizione per la maggior parte di noi non è accaduta soltanto “almeno una volta” nella vita, bensì molte volte, in circostanze simili o anche molto differenti fra loro.
Tutti noi portiamo il dono e il peso di alcune fragilità e negarle non è di molto giovamento, è più proficuo conoscerle, lottare per superarle (dove possibile) e in alternativa imparare a conviverci.

Parte 2, Parte 3

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