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I principi del Bushidō e la cultura dei Samurai appartengono solo a un’epoca passata?

I principi del Bushidō e la cultura dei Samurai appartengono solo a un’epoca passata?

Incontro con il monaco buddista M° Mitsutaka Koso. Igea Marina (RN) – 24.08.2012

(In KarateDo n.27 lug-ago-set 2012)

Traduzione M° Shuhei Matsuyama e Michele Gambolò 

La lezione del M° Koso dell’estate 2012 è iniziata con un saluto a tutti i presenti, ai quali rivolge la consueta domanda: «Dico sempre che quando per tre giorni non ci si vede qualcosa è sicuramente cambiato. Quindi, cosa c’è di nuovo per voi?».
L’origine di questo motto viene da Kouboushi (Cina II – III sec.).
C’era un tempo un uomo che si chiamava Ryomo. Era un soldato con il grado di capitano che eccelleva nell’arte del combattere, ma oltre a questo non aveva alcun interesse per lo studio. Il suo Re, Sonken, era preoccupato di ciò: «Tu Ryomo stai diventando un riferimento per i tuoi soldati e quindi dovresti incominciare a leggere dei libri per migliorare e completare la tua personalità». Ryomo rispose che, pur comprendendo le parole del Re, non aveva tempo per la lettura per via di tutte le preoccupazioni che aveva nel preparare e comandare le truppe. Il Re insistette, ribadendo che lo studio è utile e fondamentale in qualsiasi momento per un combattente e che quindi egli doveva trovare il tempo per arricchire la sua mente.
La perseveranza del Re dopo un po’ fu premiata: un giorno Ryomo si decise e cominciò a studiare.
Trascorso del tempo, un altro ufficiale di nome Roshuku passò vicino alla casa di Ryomo. Conoscendolo come una persona forte fisicamente, ma povera di pensiero, tirò dritto. Nei giorni successivi un vicino di casa di Ryomo gli disse che il capitano aveva fatto enormi progressi, perché aveva intrapreso la lettura di libri e quindi si poteva discutere con lui in maniera interessante. Roshuku si convinse ad andare a trovare Ryomo e alla fine del dialogo gli confida che si vede chiaramente che sembra tutta un’altra persona: «Io pensavo che tu fossi interessato solamente alla battaglia e al combattimento, invece, devo dirti che sei completamente cambiato». Ryomo gli rispose candidamente: «Quando non incontri un uomo per tre giorni devi sempre guardare nel profondo del suo sguardo per capire cos’è cambiato in lui!».

Le persone cambiano ogni istante, soprattutto coloro che hanno l’ambizione e l’obiettivo di migliorarsi.

Le persone cambiano ogni istante, soprattutto coloro che hanno l’ambizione e l’obiettivo di migliorarsi. Quando le s’incontra bisogna guardarle come se fosse la prima volta. Anch’io quando incontro voi cerco di riflettere su come sono cambiato nei giorni trascorsi dall’ultima visita.
Io abito vicino a Parigi e spesso vado a visitare piccoli paesi per le campagne. Ogni luogo ha una sua storia, una sua cultura, un suo clima. Sembra che ogni villaggio sia calzato alla perfezione dentro le proprie singolarità. La bellezza dei luoghi appare oggi evidente come la soluzione migliore, ma ciò è avvenuto nel tempo con le decisioni dell’uomo.
Questa volta vorrei presentarvi un libro intitolato Bushidō Nitobe Inazō. Il libro, scritto negli USA nel 1899 (Bushidō the soul of Japan), prende spunto dal tentativo di rispondere alla domanda di un amico occidentale che coglieva involontariamente il punto nodale della differenza culturale tra Giappone e Occidente, differenza che lo stesso Nitobe fino a quel momento non aveva percepito con tale nettezza. L’amico, un eminente giurista belga, gli aveva chiesto come fosse possibile un’educazione morale dei Giapponesi, dal momento che non era impartita istruzione religiosa nelle loro scuole.
Bushi o Samurai significano ‘guerriero’ con la caratteristica di legarsi a un signore per mansioni di scorta, di protezione dei beni ecc., quindi, un vero e proprio mestiere. Difatti ben presto tale figura divenne in Giappone una categoria ben definita. Per tutto il periodo Edo i Samurai rappresentarono un elemento fondamentale per l’equilibrio interno della nazione. La categoria ottenne nel tempo enormi privilegi, uno di questi era il porto delle armi, la katana e il tantō (nitō = due spade). L’uso di queste due armi era regolamentato da preciso codice comportamentale. Altre categorie, come per esempio i commercianti, ne potevano portare solo una per la difesa dei propri beni.

Vorrei farvi apprezzare la cultura del modo di pensare giapponese non direttamente attraverso la figura del Bushi, ma piuttosto dai principi morali che la regolano. Il libro è stato scritto in un periodo di grande cambiamento. Il crollo del sistema feudale e l’incontro della cultura commerciale occidentale, dopo i duecento anni del Sakoku (Paese incatenato), stringe il Giappone in un momento di grande confusione e di riflessione sulla propria identità culturale. Con la rivoluzione industriale arrivano le grosse navi dei paesi coloniali che sbarcano, tutto d’un tratto, una nuova cultura che dirompe dopo secoli di tranquillità.
Nel 1853 giungono le navi della flotta militare americana per chiedere al Giappone l’apertura dei suoi porti al commercio occidentale e analoghe pressioni vengono dalla Russia. L’anno successivo si aprono i rapporti commerciali con la firma di un trattato storico con gli Statu Uniti.
Per attuare tale cambiamento si dovette mettere in atto il rovesciamento del potere interno, retto con l’aiuto dei Samurai, attraverso una guerra che ebbe fine nel 1868. Furono introdotte armi moderne e tutta una serie d’infrastrutture che adeguavano il Giappone ai paesi industrializzati d’America e d’Europa. Il nuovo assetto portò alla soppressione della categoria dei Samurai.

Questo libro è stato scritto dopo trent’anni dalla nascita del Giappone moderno. Naturalmente l’apertura al mondo occidentale ha portato numerosi studenti a studiare le culture occidentali. Uno di questi è appunto Nitobe, che nasce appena prima della rivoluzione in una famiglia di Samurai. Studia agronomia ed educazione pedagogica, arrivando a ricoprire la carica di sottosegretario all’ONU.
Vi racconto un aneddoto della storia di uno studente che proveniva da una famiglia di Samurai. Egli andò in Francia per approfondire la conoscenza della cultura occidentale. Era veramente studioso, quasi non mangiava per dedicarsi alla scuola. Un giorno si ammalò con febbre e raffreddore. La signora che gli dava alloggio gli disse che se stava male non doveva andare a scuola. Lui le rispose: «Se io riposo un giorno lo sviluppo del Giappone ritarderà un giorno». E così uscì per andare a scuola.
Questo fatto aiuta a capire il senso del dovere di quella generazione e a dimostrare la volontà di contribuire al cambiamento del paese attraverso la costanza dello spirito. Quello studente divenne in seguito il primo rettore dell’università di Tokyo.

– La mia presenza qui in Italia è dovuta all’invito del M° Shirai. In Francia io conosco la famiglia del M° Kase. Sua moglie spesso mi racconta del periodo di quando partirono per l’Europa per trasmettere il Karatedō con uno spirito che mi ricorda quello di Nitobe e dello studente dell’episodio precedente. –

Il modello del Bushidō costruisce l’uomo ideale dentro l’unione tra pensiero e comportamento.

Ritornando al libro di Nitobe, possiamo dire che il Bushidō è paragonabile a un ordine di cavalieri medioevali o a una categoria di nobili dei tempi passati.
Oltre all’aspetto militare, la categoria era sottoposta a un codice morale non scritto che era tramandato nel tempo. Nel tempo tale codice si è rinforzato diventando una norma che non è stata scritta da una sola persona, ma ha preso corpo di generazione in generazione.
Nitobe dice che il principio del Bushidō è il fair play, la cui chiave risiede nello spirito come una pietra di fondazione. Cercando di scoprire la base del Bushidō, Nitobe dice che bisogna guardare al Buddhismo, allo Shintoismo e al Confucianesimo. Dal Bukkyo arriva l’insegnamento di accettare il proprio destino. La sottomissione è una cosa inevitabile. La calma e la tranquillità si tengono anche davanti al pericolo. Dallo Shintoismo è derivata la fedeltà al proprio paese, come una sorta di culto dei propri antenati. La capacità di contenere l’arroganza. Il Confucianesimo ha contribuito formando la morale, indispensabile per governare. Lo spirito del Bushidō ha quindi attinto a varie religioni, il modello del Bushidō costruisce l’uomo ideale dentro l’unione tra pensiero e comportamento.

I sette principi del Bushidō


1) Gi = giustizia, fede, moralità, rettitudine.
La ricerca della verità per l’umanità parte dalla rimozione degli interessi personali. Giusto o sbagliato non è mai motivo di dubbio, agire disonestamente è motivo di vergogna. Questo pensiero di onestà è alla base del nostro “jinkaku kansei ni tsutomuru koto” del Dojo Kun.

2) = coraggio.
Yūki è la forza e la capacità di decidere e realizzare la propria volontà. Questo modo di agire deve venire dal Gi, diversamente non può essere virtuoso. Quindi, Yūki significa “il coraggio di fare una cosa giusta”. Chi possiede Yūki agisce con tranquillità e coscienza nel momento del pericolo, come una persona che ha grande disponibilità verso gli altri. Nel nostro Dojo Kun possiamo riferirlo a “kekkei no yu o imashimuru koto”.

3) Jin = comprensione, benevolenza, compassione, amore.
È la virtù suprema dell’uomo. Per eccellere è necessario possederla.
Date Masamune, un Samurai vissuto tra il 1567 e il 1636 diceva che, se ci si basava tutto sul Gi, si diventava troppo rigidi e che se si era tutto Jin si diventava deboli. Quindi, il Samurai avendo la spada con la quale dare la vita o la morte, aveva l’obbligo di coltivare arti diverse quali la poesia, la musica, la pittura… per avere la sensibilità di saper decidere con giustizia. Dentro al nostro Dojo Kun lo paragonerei a “jinkaku kansei ni tsutomuru koto”.

4) Rei = rispetto, cortesia, saluto.
Nitobe dice di avere pazienza per la sofferenza e la difficoltà. Per sopportare un brutto periodo, l’uomo non deve essere presuntuoso e arrogante. Non deve essere influenzato dagli altri per sbagliare. Rei è anche inteso come affetto, modestia, umiltà e comprensione verso gli altri. Con questo genere di atteggiamento l’uomo sarà sensibile, raffinato ed elegante. Troviamo oggi un esempio nell’incontro di Sumo, dove il vincitore non esulta davanti all’avversario, ma conclude l’incontro con il saluto e egli risponde con tacito consenso verso il responso del risultato. Tale atteggiamento non è scritto nelle regole di gara, ma è da sempre praticato.
All’interno del nostro Dojo Kun troviamo corrispondenza nel principio di “reigi o omonzuru koto”.

5) Makoto = sincerità, onestà.
Nitobe dice che per il Samurai dire una bugia o attuare un inganno è gesto di disprezzo verso le persone e quindi è un segno della propria debolezza. In pratica il disonore. Per il Samurai non esistono due parole, mantiene sempre ciò che dice. Fra i Samurai non sono mai esistiti i contratti scritti. Richiedere a un Samurai di mettere per iscritto un patto equivaleva a un insulto verso la sua reputazione.
La lealtà è forse la base di tutti i principi. Confucio dice che una profonda rettitudine può far muovere le persone per arrivare a un giusto obiettivo. È un principio vincente.
Pensando a Madre Teresa di Calcutta devo dire che la sua figura ha sempre trasmesso onestà e sincerità. Quando ricevette il Nobel per la pace un giornalista le domandò cosa bisognava fare per la pace nel mondo. Lei rispose semplicemente “Quando torna a casa ami la sua famiglia”. Quindi “makoto no michi o mamoru koto” del nostro Dojo Kun.

6) Meiyo = onore.
Significa la dignità e il valore di una persona. Per il Samurai è tutto, lega il dovere e il prestigio. Tale principio era inculcato già da piccoli. Il padre corregge il figlio al primo errore. L’onore non viene dalla nascita, ma è una posizione che si forma con il comportamento. È uno degli obiettivi di vita. Quando un giovane giapponese esce di casa per costruire la sua vita, per mantenere il suo onore e quello stesso della famiglia, non ritorna più neanche in caso di povertà.
Naturalmente l’onore va trattato con modestia e umiltà senza che diventi una regola oppressiva, perché in tal caso sarebbe soffocante e si perderebbe la capacità critica verso se stessi. Per il nostro Dojo Kun è “doryōku no seishin o yashinau koto”.

7) Chūgi = lealtà, fedeltà.
La persona opera nell’interesse della famiglia. Parlando di Bushidō diventa prevalente l’interesse del Paese piuttosto che quello per se stessi. La persona è uno degli elementi su cui il Paese può contare. Il Samurai obbedisce agli ordini del proprio Shōgun (o anche capo-famiglia) senza riserva, ma egli ha anche l’obbligo di consigliarlo nel caso si accorga che stia commettendo un errore, proprio per l’obbligo di fedeltà che ha verso la famiglia intera. Riferito al nostro Dojo Kun è la riunione di “jinkaku kansei ni tsutomuru koto + makoto no michi o mamoru koto + reigi o omonzuru koto”.
Il Samurai costruiva lo spirito e la bellezza della sua figura proprio come lo sviluppo di un’arte nella pratica equilibrata dei sette principi del Bushidō.

Vorrei aggiungere un racconto che si tramanda in Giappone con una tradizione paragonabile ai vostri menestrelli (katarite). È uno dei vari racconti di guerra contenuto nel Heike Monogatari (romanzo epico del XIV secolo).
Un grande guerriero di nome Kumagai Jiro Naomi della famiglia Genji era colui che guidava l’esercito dei Samurai del proprio Shōgun con grande coraggio. Un giorno, durante una battaglia, riconosce tra i nemici un guerriero vestito da Shōgun che sta scappando a cavallo. Lo insegue urlando che uno del suo rango non può fuggire dando la schiena e che il suo dovere è quello di tornare a fronteggiarsi. Il nemico lo ascolta, ritorna indietro e combatte contro di lui. Nel corpo a corpo Kumagai prevale e blocca a terra l’avversario. Prima di ucciderlo gli toglie la maschera e l’elmo (kabuto) accorgendosi con stupore che il nemico è solo un ragazzino. Inoltre, egli era truccato nello stile tipico delle famiglie Samurai di rango elevato (i Samurai si truccavano il viso con sembianze quasi femminili e si tingevano di nero i denti per fare in modo che la propria faccia mantenesse un’espressione gentile in caso di sconfitta con taglio di testa riconsegnata alla famiglia – N.d.T.). In effetti avrebbe potuto essere suo figlio!
Kumagai ha un attimo di compassione, perché capisce il rango dell’avversario e gli chiede il nome, proponendogli di salvarlo. Il ragazzo risponde che lui deve prima presentarsi. Kumagai dice che il suo nome non è così importante, lui viene da Musashi, ma il suo rango non è certamente elevato come quello del ragazzo. Il giovane gli risponde con calma che allora è inutile che si presenti, perché tagliandogli la testa e portandola alla famiglia Genji sicuramente tutti lo riconosceranno. Kumagai è indeciso, perché sicuramente la morte di un solo guerriero non avrebbe potuto ribaltare l’esito della battaglia e, pensando al padre come avrebbe pianto il figlio, stava quasi per lasciarlo andare. Ma in quel momento sopraggiunsero una cinquantina di cavalieri Genji, così in un attimo ragionò che liberandolo sarebbe stato sicuramente ucciso da uno di questi e, quindi, piangendo prese il coraggio di decapitarlo.
Nel togliergli la corazza (yoroi) gli trovò addosso un flauto e subito il suo pensiero andò a come doveva essere quel Samurai con un’educazione così raffinata. Sicuramente aveva suonato il flauto prima della battaglia. Tra tutti i suoi Samurai Genji non c’era una persona con un’educazione tanto elevata!
Al ritorno dalla battaglia nel consegnare la testa dell’avversario con il flauto al suo Shōgun e raccontando ai presenti gli ultimi momenti di questo ragazzo Kumagai si commuove e con lui tutti gli altri.
Atsumori era il suo nome, aveva quindici anni e suonava benissimo il flauto. In tutto il racconto Kumagai usa sempre parole di grande rispetto verso il ragazzo figlio dello Shōgun. Dopo un breve tempo mandò a suo padre una lettera con il flauto. Dopo questo episodio Kumagai lasciò le armi diventando monaco per commemorare la morte del ragazzo.

Per i Samurai l’educazione era più importante del carattere.

Dentro questo racconto ci sono tutti gli elementi che vi ho riportato. Per i Samurai l’educazione era più importante del carattere. La sensibilità estetica verso la bellezza, anche in punto di morte, la dice lunga su tale modo di pensare.
Pensando alla nostra epoca avendo rispetto, consapevolezza, umiltà e gratitudine verso chi ci ha fatto crescere si può a nostra volta essere utili agli altri, senza calcolo e ringraziandoli per poter avere la possibilità di aiutare (on).
La cultura del Bushidō sembra appartenere a un tempo remoto, ma in occasione del recente terremoto il comportamento del popolo giapponese ha attinto a uno spirito mai passato.

Grazie anche questa volta per la vostra attenzione.
Gassho, M° Mitsutaka Koso.

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