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La prova più dura

La prova più dura
foto di Fabrizio Bagnoli

Il mio maestro guarda soltanto due cose: l’interesse del vero karate e quello degli allievi.

Se chiedete a dei praticanti di karate qual è la prova più dura che hanno dovuto affrontare in anni di pratica (io l’ho fatto), le risposte più frequenti che otterrete saranno:

  •  l’esame di cintura nera (o comunque un esame);
  •  un combattimento in gara in cui sono stati feriti;
  •  una gara in generale, non importa se di kata o di kumite;
  •  un allenamento molto intenso, di quelli che si usavano di più una volta, ma non sono ancora scomparsi del   tutto dalla pratica del karate, non solo tradizionale;
  • un allenamento sostenuto in condizioni menomate, per non aver voluto rinunciare oppure (incredibile ma vero) per non aver avuto il coraggio di dirlo al Maestro.

Questa lunga premessa per sostenere che non esiste una sola risposta a questa domanda: tutto dipende dall’esperienza e dalla maturità del praticante e, quindi, sicuramente dalla sua età anagrafica e dalla sua anzianità di pratica. Per chi scrive, eseguire un kata senza comando è stata per almeno una ventina d’anni la prova più dura.
Pochi giorni fa ho assistito, non come spettatore distaccato, ma con tutta l’empatia dovuta a una compagna di pratica, a quella che sicuramente è stata per lei la prova più dura e tale resterà per chissà quanto tempo a venire.
Devo aver già accennato in un articolo precedente al fatto che, nella palestra in cui io mi alleno, le lezioni non terminano quando la lancetta dei minuti raggiunge la cifra dodici, ma quando i Maestri che insegnano nell’ora precedente ritengono di aver completato il programma. Noi dell’ultimo corso spesso iniziamo con dieci o quindici minuti di ritardo, ma niente paura: li recuperiamo tutti fino all’ultimo, sanguinosissimo, minuto.

Il maestro non era contento della forza e della velocità che la ragazza metteva nelle tecniche.

In questo periodo, che precede gli esami di Dan, questo intervallo tende ad allungarsi ancora, perché gli insegnanti del corso precedente cercano di dare gli ultimi “ritocchi” ai candidati e spesso fanno ripetere parte del programma a piccoli gruppi. Questa pratica è caratteristica della “pignoleria tecnica” della mia palestra e personalmente ne vado fiero, anche se non passa lezione senza che il maestro mi rimproveri le posizioni alte, la perdita dell’hikite, la lentezza e altre cosucce. Ma oggi non è di me che si parla.
L’altra sera la situazione era diversa. Il maestro ha “chiamato fuori” una ragazza cintura marrone che evidentemente è iscritta all’esame di primo Dan, dell’età di quattordici o quindici anni. Un’atleta seria, silenziosa e riservata, piuttosto precisa nella tecnica. Ma il maestro non era contento della forza e della velocità che la ragazza metteva nelle tecniche. Con calma e gentilezza le ha chiesto di assumere hachijidachi e di eseguire chokuzuki, la prima tecnica che si apprende nella primissima lezione di karate. Intorno a loro due si era formato un capannello di una trentina di cinture nere, in attesa di terminare o di iniziare la loro lezione. La tensione era palpabile. A parte gli allievi distratti o impazienti, la sensazione dominante si potrebbe definire di cringe, termine che i giovani usano per definire il disagio e l’imbarazzo che si prova per il comportamento di qualcun altro.

La cintura marrone ha eseguito chokuzuki in modalità piano/forte, cioè nella sua solita maniera. Era chiaro (per chi stava fuori) che parte del problema era nella respirazione e nella (mancanza di) contrazione dei muscoli addominali. Ma il maestro non se l’è presa. Le ha rivolto una domanda che ci fa spesso di questi tempi: “Che percentuale della tua forza attuale hai usato?” La ragazza non era sicura, ma ha azzardato: “Il 50%”. Il maestro ha annuito e le ha chiesto: “Perché?”. Silenzio. La probabile risposta era che la cintura nera non sapeva COME FARE per arrivare al suo massimo. Le prove sono continuate. Adesso il maestro alternava i suoi pugni a quelli di lei, mentre il supplizio, protraendosi più del previsto, calamitava l’attenzione generale.
Alla fine il maestro ha creduto di vedere un impercettibile miglioramento nell’esecuzione della ragazza e ha chiuso la lezione individuale, raccomandando alla candidata di mantenere quell’atteggiamento per tutta la durata dell’esame che l’aspettava di lì a un paio di settimane: dai fondamentali al kumite fino al temibile Bassai Dai.

Ho conosciuto degli adulti che hanno cambiato palestra o interrotto la pratica per molto meno.

Sinceramente mi sarei aspettato che il maestro sconsigliasse alla ragazza di sostenere l’esame, in attesa di irrobustire un po’ il suo karate in vista della prossima sessione, ma se ha deciso così ha probabilmente valutato che valesse comunque la prova di sottoporla al vaglio della Commissione: dopo tutto la ragazza si allena con costanza e quel suo modo di fare karate le è valso comunque il primo kyu.
Per me tuttavia l’interrogativo più interessante non è se la ragazza sarà promossa cintura nera e neppure se sceglierà spontaneamente di rimandare la prova, ma come reagirà a quei quindici minuti di “terzo grado” a cui è stata amichevolmente sottoposta davanti a tutti i compagni di allenamento.
Ho conosciuto degli adulti che hanno cambiato palestra o interrotto la pratica per molto meno, ma ho fiducia nella resilienza dei giovani: chissà che quel quarto d’ora non le abbia dato una bella svegliata, come i colpi di shinai ai praticanti di zen distratti o assopiti.
Un’altra domanda (da ex presidente di palestra) potrebbe riguardare l’atteggiamento del maestro: è “furbo” torchiare così un allievo alla vigilia di un esame, o è meglio lasciar fare il “lavoro sporco”alla commissione d’esame per non rischiare di perdere una quota sociale? Ma questa domanda sarebbe offensiva per il mio maestro che guarda soltanto due cose: l’interesse del vero karate e quello degli allievi. Se l’allieva non comprende che il maestro le ha dato di più, come a una “figliuola prodiga”, forse è meglio che cerchi altrove

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