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L’approccio sistemico-relazionale nel Karate-do (Parte 2)

L’approccio sistemico-relazionale nel Karate-do (Parte 2)

Nel karatedo la dimensione corporea è via privilegiata di accesso e di dialogo con la nostra interiorità.

Il neurologo, neuro-scienziato e psicologo António Rosa Damásio in uno dei suoi saggi sosteneva che:

“E tuttavia assai prima dell’alba dell’umanità gli esseri erano esseri. A un certo punto dell’evoluzione, una coscienza elementare ebbe inizio. Con essa arrivò una mente, semplice; aumentando la complessità della mente, sopravvenne la possibilità di pensare e, ancora più tardi, di usare il linguaggio per comunicare e organizzare meglio il pensiero. Per noi, allora, all’inizio vi fu l’essere e solo in seguito vi fu il pensiero; e noi adesso quando veniamo al mondo e ci sviluppiamo, ancora cominciamo con l’essere e solo in seguito pensiamo […]”.

… nella pratica del Karate-do la prima competitività avviene e si sviluppa solo tra parti di sé che necessitano di uscire dal conflitto per entrare in armonia.

Dunque, siamo prima corpo poi mente; dunque, il corpo comunica il nostro pensiero “prima” della mente.
La percezione del proprio corpo è sempre mediata dall’immagine che gli altri hanno del nostro corpo, l’immagine stessa del corpo riflessa nello specchio non è mai fedele, perché non è sovrapponibile essendo simmetrica: è lo sguardo dell’altro che dà forma alla nostra immagine corporea, che si costruisce e si decostruisce nel continuo rapporto che l’Io ha con il mondo esterno.
La visione che ognuno di noi ha del proprio corpo, in tal senso, è sempre frutto di una continua mediazione e intersezione tra il soggetto e gli sguardi degli altri. Appare evidente, dunque, quanto sia fuorviante il senso comune che ci fa percepire il corpo come un’entità immutabile e statica, mentre esso è sempre in progress, inafferrabile, un costrutto simbolico che nasce dal rapporto conflittuale che il soggetto ha con la cultura e la storia del suo tempo.

Un altro segno della complessità di concettualizzare il corpo insiste in una difficoltà linguistica nell’esprimere la propria fisicità che resiste al linguaggio, perché per esprimere la dinamica psicocorporea è necessario connettere il “fuori” con il “dentro”.
Pensiamo a un individuo che per la prima volta si incontra/scontra con i primi rudimenti del Karate, alla sua difficoltà nel muoversi e nel muovere parti del proprio corpo in un tempo e in uno spazio definito: il corpo non risponde correttamente a quanto la mente comanda ed è solo con il passare del tempo che si acquisiscono le skills capaci di sincronizzare ciò che si apprende con la mente con ciò che si apprende con il corpo e viceversa.
In passato i vari approcci psicoterapeutici si sono limitati a vedere un’influenza lineare bidirezionale tra un disagio psichico o un disturbo somatico, andando incontro al rischio di sovraccaricare di significato il corpo. È possibile, invece, sostenere che esiste un tutt’uno mente-corpo-sistema, in cui si può osservare una circolarità che tende all’omeostasi e non più un rapporto di causa effetto lineare, ci spostiamo verso un paradigma in cui “mente-corpo” sono inter-relati in modo ricorsivo e circolare.

… sperimentare continuamente le proprie capacità e i propri limiti e la costatazione dell’indispensabilità della collaborazione del partner-avversario per il loro superamento.

Nella cultura occidentale si è abituati a operare una scissione tra mente e corpo, come se il vissuto corporeo non avesse nulla a che vedere con il vissuto mentale e, quindi, si è portati a pensare più facilmente che lavorare/studiare per acquisire una competenza sia un qualcosa che abbia a che fare molto con il “saper fare” e poco o quasi niente con il “saper essere”.
Secondo la concezione orientale, invece, ci esercitiamo per cambiare, in sostanza «incorporiamo in noi la disciplina in cui ci esercitiamo e con l’esercizio diventiamo persone diverse» (Keeney, 1985). Le discipline meditative orientali centrate sulla corporeità ipotizzano un corpo e una mente strettamente interconnessi, al punto che l’uno e l’altra non sono altro che due espressioni diverse dello stesso organismo, riferendosi all’uomo come “unità psicosomatica”, sintesi esistenziale nella quale mente e corpo s’integrano per costruire un insieme funzionale in cui l’uno influenza l’altro: il corpo è presente alla consapevolezza, mentre la mente si esprime e vive attraverso il corpo.
Pertanto, il corpo che acquista naturalmente il significato di moderatore di messaggi e di canale espressivo principe per dar voce a emozioni e sensazioni (dove il concetto di corpo e di relazione tra corpi ha un significato tutt’altro che elementare), trova nel Karate-do uno strumento amplificativo della propria voce.

Lo spazio privilegiato del Karate-do è un’occasione imperdibile per compiere un’analisi/studio sul significato che il corpo acquisisce all’interno della comunicazione, passando attraverso il valore che lo stesso rappresenta all’interno della “pratica” e di quello che rappresenta all’interno di una concezione sistemica.
Quando si sceglie di intraprendere la via e s’inizia a praticare, il corpo risponde automatizzandosi, rimandando un’immagine amplificata o distorta a seconda della percezione che il soggetto possiede del proprio Sé.
Proviamo in tale senso a pensare che nella pratica del Karate-do la prima competitività avviene e si sviluppa solo tra parti di sé che necessitano di uscire dal conflitto per entrare in armonia, e che la competitività interpersonale è, o dovrebbe essere, solo nel mantenimento dell’equilibrio e non nella sopraffazione.
Lo sperimentare continuamente le proprie capacità e i propri limiti, e la costatazione dell’indispensabilità della collaborazione del partner-avversario per il loro superamento, attiva una comunicazione che flette la mente a un’ampiezza che include sia il paradigma concettuale che pratico: il corpo si estende sul tatami come il “labirinto” della propria mente si estende al Sé azzerando i confini.

Nel Karate-do la dimensione corporea, dunque, è via privilegiata di accesso e di dialogo con la nostra interiorità, la cui espressione è arricchita dal movimento del corpo da soli o con l’altro e con il gruppo, il karate dà la possibilità di contrattare distanze, scegliere di dare spazio a pensieri che ad alta voce non potrebbero essere espressi.
Tutto ciò consente al karateka di incrementare la capacità di percezione corporea, di focalizzare e conoscere le diverse parti del corpo, influendo positivamente sulla capacità di attenzione e concentrazione, aumentando le competenze nella gestione dell’equilibrio psico-fisico e nel movimento delle proprie abilità. La pratica del Karate-do incrementa lo sviluppo emotivo e cognitivo, accresce la capacità del corpo di leggere l’espressione emotiva agevolando una più autentica conoscenza del sé, incrementa la flessibilità di positioning sul timing e ottimizza la capacità di relazionarsi.

Il karate in questi termini, quindi, diventa contemporaneamente sia strumento, sia setting della terapia sistemico-relazionale, facilitatore dell’espressione corporea dei propri vissuti emotivi, attraverso cui lo specialista riesce a carpire facilmente ciò che non viene detto dalla parola e approcciare a una metodica volta al superamento dei blocchi emotivi.

Il segreto risiede nel concetto di consapevolezza e messa in gioco: accedere al Dojo consapevoli delle proprie emozioni e dei propri pregiudizi, aperti ad ascoltare se stessi e l’altro.

Il corpo non è una mera macchina (funzionante o non funzionante), ma è un elemento ricco di vissuti, caratterizzato da storie e narrazioni complesse, capace di intessere relazioni con l’ambiente esterno, di veicolare e rispondere ai messaggi a diversi livelli

Riconoscere le proprie sensazioni, dare ascolto ai minimi segnali del nostro corpo, ascoltare noi stessi, ci dà la possibilità di sintonizzarci con l’altro, restituendogli la sensazione di essere visto e quindi di esistere …». (Cecchin, 2008)
“Per riuscire a fare questo è necessario sviluppare una consapevolezza paziente, non avere fretta, osservare e ascoltare, osservarsi e ascoltarsi.”(Restori, 2013).

Il sentire è ciò che si percepisce direttamente di una situazione, di un oggetto, di una persona con cui siamo in contatto: le sensazioni fisiche che essa attiva nel nostro corpo, le emozioni e i sentimenti che smuove, le intuizioni e le immagini che suscita in noi (spesso mi piace paragonare la piacevole sensazione che si avverte quando si “pratica”, alla piacevole sensazione di dolce che avvertiamo in bocca allorché mangiamo un cioccolatino).
Il sentire è sempre immediato e spontaneo, il pensare è inevitabilmente influenzato dai nostri schemi mentali, dai pregiudizi e dalle abitudini sociali e culturali. Il segreto risiede nel concetto di consapevolezza e messa in gioco: accedere al Dojo consapevoli delle proprie emozioni e dei propri pregiudizi, aperti ad ascoltare se stessi e l’altro.

Parte 1

 

BIBLIOGRAFIA
  • Frank R. (2005), Il corpo consapevole. Un approccio somatico ed evolutivo alla psicoterapia. Milano, FrancoAngeli Edizioni.
  • Cecchin G. (1997), Verità e pregiudizi – Un approccio sistemico alla psicoterapia. Milano, Raffaello Cortina Editore.
  • Bruner J. (1990 ed or.), La ricerca del significato. Torino, Bollati Boringhieri.
  • Cecchin G. (2008), Ci relazioniamo dunque siamo. Curiosità e trappole dell’osservatore. Rivista Connessioni.
  • Liguori T. (2015), “La via della mano aperta”: l’equilibrio relazionale nel gruppo, Salerno, ISPPREF.
  • Restori A. (2012), Contesti, relazioni ed emozioni. Cambia-menti, vol. 1.
  • Keeney B. (1983), La Terapia sistemica. Roma, Casa Editrice Astrolabio.
  • Damasio A. R. (2012), The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness, New York, Harcourt Brace & Company.
  • www.idipsi.it – Istituto di Psicoterapia Sistemica Integrata

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