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Le motivazioni cambiano, il karate resta

Le motivazioni cambiano, il karate resta
Foto di Giovanna Molinari

Le motivazioni che stanno dietro la pratica di un’arte marziale, o di qualsiasi altra attività, cambiano col tempo, ed è logico che sia così.

Le motivazioni che stanno dietro la pratica di un’arte marziale, o di qualsiasi altra attività, cambiano col tempo, ed è logico che sia così. Sarebbe triste se a settantuno anni mi allenassi quattro volte alla settimana per le stesse ragioni che cinquantadue anni prima, nel settembre del 1971, mi spinsero a varcare timidamente la soglia della palestrina di via Bezzecca, a Porta Vittoria. Qualche giorno prima ignoti squadristi avevano vergato sul muro della mia casa, proprio accanto al portone, la scritta minacciosa: “Roedner bastardo prima o poi ti spaccheremo le ossa”, siglata dal simbolo di Ordine Nuovo. Evidentemente qualcuno che non apprezzava la mia attività nel Movimento Studentesco aveva deciso, bontà sua, di lasciarmi questo avvertimento, e io ero corso subito ai rimedi iscrivendomi a un corso che, almeno speravo, mi avrebbe dato i rudimenti dell’autodifesa. Pochi mesi più tardi, sull’onda dei film di Hong Kong, le palestre di karate furono invase da emuli di Bruce Lee, delusi che nessuno gli mettesse subito in mano un nunchaku, ma animati dallo stesso desiderio di diventare invincibili, preferibilmente in poche settimane o pochi mesi.

Sull’onda dei film di Hong Kong, le palestre di karate furono invase da emuli di Bruce Lee.

 

Questo interrogativo sulle motivazioni l’ho sempre avuto in testa, ma è diventato assillante pochi giorni fa, dopo aver visto su Netflix il documentario dedicato a Diana Nyad, la nuotatrice 64enne che, dopo tre tentativi falliti, ha attraversato a nuoto il tratto di Oceano che separa Cuba dalle Keys Islands (103 miglia in 53 ore), senza alcuna protezione contro gli squali che infestano la zona. Mi è apparso chiaro che quella donna eccezionale aveva consacrato ogni energia, fisica e mentale, al conseguimento di quello straordinario obiettivo che le era sfuggito quando era più giovane e più in forze.
Di fronte a un’impresa così sovrumana, può sembrare povera cosa il lodevole impegno di chi, abbondantemente in età di pensione, “corricchia” su e giù per le colline del Parco Lambro o anche (mi si perdoni il paragone irriverente) si ostina a indossare il pigiama bianco con la cintura nera, sfinendosi a forza di fondamentali e di kata. Eppure, forse, le cose non stanno così.

Chi a 60, 70 o 80 anni, si iscrive a un’ultramaratona o intraprende una traversata dell’oceano in solitario ambisce di solito a un riconoscimento esterno: non sarà (come per la Nyad) la menzione nel Guinness dei primati, sarà solo una medagliozza da appendere al collo e poi a un chiodo in soggiorno, ma è sempre qualcosa da mostrare orgoglioso agli amici e ai parenti: non fosse così, potrebbe tranquillamente percorrere la stessa distanza correndo nello stesso Parco Lambro con l’aiuto di un contapassi. Lo stesso vale (mi perdonino i paladini del politically correct) per i disabili fisici o psichici che partecipano a gare di tipo paralimpico: una scelta rispettabilissima la loro, un po’ meno forse quella delle federazioni che sommano le loro medaglie a quelle degli atleti “normodotati”.

Mi stupisce di più chi non ha rivalse o conti in sospeso col passato, chi ha finito da tempo tutti i possibili esami di Dan o ha smesso di sostenerne, eppure non perde un colpo e da 30, 40 o 50 anni si affolla nello spogliatoio di una palestra o di un dojo: che cosa cercano costoro? Chi glielo fa fare? Prima di tutto, non si sentano degli eroi: potrebbero restare in casa ad aiutare la moglie, o fare i volontari in ospedale, o distribuire cibo ai bisognosi: sia chiaro che quello che fanno, lo fanno per se stessi, e fanno benissimo secondo me. Posso solo ipotizzare le loro motivazioni, partendo dalle mie e basandomi sulle chiacchiere scambiate prima o dopo la lezione.

Ci sono gli amanti del karate tout court, che senza fare gli schizzinosi lo apprezzano in tutti i suoi aspetti.

Ci sono i fanatici del fitness, convinti che quelle due ore settimanali tengano lontani i malanni e aiutino a smaltire i chili in eccesso: per loro tendiniti e artrosi sono acts of God, come i terremoti e il diluvio universale, e non bastano a fermarli: sarebbero disposti piuttosto a operarsi dieci volte e a imbottirsi di antinfiammatori e antidolorifici. Per fortuna nei dojo di arti marziali non c’è il controllo antidoping!
Ci sono i discepoli del Maestro, che lo seguirebbero (e difatti lo seguono) in capo al mondo. Grazie a lui hanno trovato la loro Via.
Ci sono gli “amiconi” del gruppo, che frequentano la palestra per stare insieme, soffrire con gli altri e fare quattro chiacchiere nello spogliatoio raccontandosi i propri malanni.
Ci sono gli ex-agonisti, che cercano lodevolmente e caparbiamente di mantenere gli standard dei venti/trent’anni, con l’aiuto, spontaneo o no, di tutti gli altri del gruppo: simpatici squali che dissimulano male il loro istinto predatorio, da non sottovalutare mai negli esercizi in coppia!
Infine (strano ma vero!), ci sono gli amanti del karate tout court, che senza fare gli schizzinosi lo apprezzano in tutti i suoi aspetti, da Taikyoku Shodan a Unsu Ura, compreso (incredibile dictu!) il karate online, che a me invece ricorda i tristi giorni del Covid. Se potessero, si allenerebbero tutti i giorni e più ore al giorno. C’è chi, osservandoli, sarebbe propenso a diagnosticare una forma (non sempre blanda) di dipendenza dalla nostra disciplina.

Io condivido quasi tutte queste motivazioni: al momento il karate è la mia unica, fisicamente dispendiosa, attività sportiva, che compenso con pause riflessive e ripetute pennichelle; il maestro lo conosco dal primo giorno della mia pratica e cerco, il più delle volte invano, di soddisfare le sue aspettative sul tatami. Per me che sono un “orso”, i compagni di corso sono i miei veri amici, e adesso che di corsi ne frequento due, anche gli amici si sono raddoppiati! Gli ex-agonisti li stimo e li temo, e quando li ho di fronte cerco di opporre alla loro rapacità la mia “imponente” mole. Ma soprattutto amo il karate in tutte le sue dimensioni e, siccome il tempo che ho davanti a me è limitato (lo era anche prima, ma non me ne accorgevo), cerco di “stirarlo” per il largo mettendoci dentro i corsi e le lezioni a cui tengo di più.
L’autodifesa? Ci credo ancora, ma ritengo che sia una motivazione più importante per le vittime abituali di aggressioni: le donne e le persone indifese. Per quel che mi riguarda, l’età e una certa saggezza che l’età porta con sé, rendono meno probabile che debba mettere in pratica quello che con tanta fatica e passione ho appreso in questo mezzo secolo.

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