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La posizione iniziale delle mani nel kata

Il saluto è una forma di affabilità nella vita, una condotta educata anche nella presentazione e nella conclusione del kata.

Il karate comincia e finisce con la cortesia” sottolinea Gichin Funakoshi (Karate dō il mio stile di vita, Ed. Mediterranee, Roma, 1987, p. 44).
Il saluto quindi è una forma di affabilità nella vita, una condotta educata anche nella presentazione e nella conclusione del kata, dove ci si pone in kamae, la guardia per principianti (mentre la posizione naturale, shizentai, sarà acquisita solo col tempo dagli esperti, regola del Shōtō Nijū Kun #17).
La posizione delle mani all’inizio di alcuni kata ha un preciso significato, non solo simbolico di riverenza, talvolta con la stessa valenza e denominatore comune spirituale, ma va oltre l’ermeneutica delle tecniche stesse che poi si andranno a eseguire e affinare.
Il centro della forza (sempre rilassato, mai in contrazione o tensione), il controllo della respirazione e della concentrazione sono il tanden (baricentro, armonia o equilibrio di tutte le forze interne), che si assume per raggiungere quello che sembra un ossimoro: lo stato di quiete e di vigilanza al tempo stesso, chiamato zanshin, dallo yoi allo yame, cioè quell’assetto e pieno controllo delle facoltà, dominio quindi dei sensi, della mente e conseguentemente del corpo (l’enkràteia già indicata da Socrate come la capacità di padroneggiare istinti e impulsi col chiaro obiettivo del perfezionamento etico e morale).

Vediamo nella sequenza di foto le diverse impostazioni delle mani nei kata Shōtōkan, partendo da: 

• Bassai-daiAssalto alla fortezza; 

• Kanku-dai  – Scrutare il cielo o Sguardo al grande sole; 

Tekki Shodan – Cavaliere di ferro n. 1; 

• Enpi – Volo di rondine; 

• Bassai-shō – Penetrare la fortezza; 

• Chinte – Mano straordinaria.
Prendiamo come campione rappresentativo la medesima posizione delle mani Jiai no Kamae, anche conosciuta come Hōran no Kamae (Uovo nel nido), tipico saluto di ‘gentilezza e gratitudine’ che ritroviamo anche nei monaci Shaolin col “Chā Shǒu” in: Jion – Bontà di Budda e riconoscenza, ma anche tradotto Suono del Tempio; in Jitte – Dieci mani; in Ji’in – Tempio dell’amore di Budda o nascosto/segreto (ancora vivo nello SKIF e tramandato dal Mº Kanazawa).
Dopo, viene la sequenza in Kosa Uke: migi ken chūdan uchi uke e hidari ken gedan uke etc.
Tutti e tre i kata appartengono a un gruppo di origine Tomari-te (dal nome del villaggio Tomari a Okinawa, ma anche noto alla scuola di Itosu Ankō di Shuri) e iniziano con la stessa caratteristica: piedi e gambe unite, ginocchia leggermente flesse, le spalle rilassate e le anche parallele al piano d’appoggio, peso distribuito sull’intera superficie del piede, schiena eretta e testa dritta, leggermente reclinata in avanti a protezione del collo, contrazione di addome e natiche non protese all’indietro, gomiti stretti α 30° tra gli avambracci, braccia staccate dal tronco che formano un semicerchio, sinonimo di nobiltà d’animo e unità tra i praticanti e, quello che esaminiamo se pur in modo sommario, quindi riduttivo in questa pagina, sono le mani chiuse: pugno destro racchiuso dalla mano sinistra all’altezza del mento.

Il centro della forza (sempre rilassato, mai in contrazione o tensione), il controllo della respirazione e della concentrazione sono il tanden.

Qual è il messaggio essoterico?
Ci sono varie interpretazioni, la prima è quella appresa quando mi fu insegnato Jion nei primi anni ’80: le due mani congiunte hanno la valenza del sole (pugno chiuso destro) e della mezza luna (mano sinistra). Quindi, un principio di giunzione, di continuità se vogliamo, del passaggio dal giorno alla notte. Una sorta di antinomia amore-morte, luce-tenebre, materia-spirito, inverno-estate, abbondanza-carestia, dove però si tende a dissolvere o comunque unire ciò che è opposto, rigido e inconciliabile, tipico poi della visione manichea. Qui assume una forma di semplice riconoscimento verso gli altri dove il nucleo, qui protetto, è la nostra anima interiore. In forma più didascalica può ricondurci a una noce o a una pesca che preservano (proteggono?) all’interno il contenuto di noi stessi.
Poi, riferito prettamente al senso del kata in esame, abbiamo la sinistra pronta a difendere e la destra, nascosta, pronta al contrattacco che viene dunque solo e dopo l’offesa. Comunque sia, il messaggio è di pace e dialogo, all’insegna e con l’intenzione di percorrere la Via della crescita e dell’equilibrio personale.

Il saluto a mani unite molto probabilmente viene dalla Cina, alcuni lo attribuiscono addirittura alle società segrete in opposizione alla Dinastia Qing, volendo ristabilire quella Ming. Quindi era segno o segnale di distinzione, gesto di appartenenza.
Lo troviamo ancora oggi nel Kung Fu con una piccola variante al “nostro” saluto Jion ed è chiamato Bao Quan Li. Rappresenta il simbolo Tao: la mano destra aperta lo Yin, contrazione, mentre la sinistra chiusa lo Yang, espansione.
Molteplici sono anche le spiegazioni nei diversi stili di Kempo e Wushu, tra le scuole Shaolin (“il pugno del monaco”), Tai Chi e Yi Quan.
Ne prendo una in prestito: le quattro dita della mano sinistra sono virtù, saggezza, salute, arte, mentre il pollice è leggermente piegato a indicare di essere sempre flessibili mentalmente, versatili nei pensieri e nelle parole, a lasciare comunque dietro di sé ogni attrito e detrito del proprio ego che a volte contamina l’essere, che vive e si alimenta della sua stessa cecità e sordità, poi manifesto in alterigia e altezzosità, arroganza e presupponenza. La mano destra invece è chiusa come la “nostra”, simboleggiando la pratica rigorosa dell’Arte Marziale che non è negoziabile e riducibile, non ci sono compromessi, ma solo dedicazione e persistenza, disciplina, controllo e moderazione.

Come si percepisce, il saluto, che dovrebbe essere più naturale che normale, viene certe volte eseguito e reiterato, purtroppo per latente consuetudine, in modo abitudinario persino manieroso. Di per sé, invece, è un messaggio profondo di tranquillità interiore che vogliamo trasmettere, allo stesso tempo di alleanza e disponibilità, non pleonastico, bensì è grado, peso e misura di determinazione e fermezza, svolgendo anche una funzione di disponibilità immediata e incondizionata dell’esser pronti, di “rapidità” nell’iniziativa che ricorda Yukio Mishima quando dice: “prendi una decisione nello spazio di sette respiri” (in La Via del Samurai, Bompiani, Milano, 1983, p. 166).

Il saluto, nella forma e nel contenuto, è sempre presente come segmento dell’esistenza.

La traduzione italiana di Karate-dō “via della mano vuota”, ampiamente spiegato da Funakoshi anche come passaggio e cambiamento etimologico “da mani cinesi” a “mani vuote”, col saluto rappresenta fin dall’inizio l’identità e l’integrità della disciplina, dell’arte marziale, metafora nella presentazione e nel commiato, (racchiudendo anche il significato stesso della finitudine della vita: “un instante tra due eternità” come l’apostrofò Santa Teresa di Lisieux, tra limiti ed errori, però sempre convertibili e trasformatori di Bene).
Il saluto, nella forma e nel contenuto, è sempre presente come segmento dell’esistenza, all’interno di un ‘piano di navigazione’ dove non è permesso andare alla deriva o a una partitura di note da suonare nel pentagramma al quale siamo chiamati almeno a non stonare. Quindi, è l’incipit di “quello che sarà a venire”, che dovrebbe essere non dico impeccabile, ma fruttuoso e propositivo, indefesso nell’espansione della coscienza e della conoscenza, nel discernimento e nell’attenzione, nella mitezza, nella “prudenza e umiltà” (“le grandi virtù del karate” come scrive Funakoshi, ibidem, p. 100), nello sforzo quotidiano di levità spirituale, indice di purezza e rettitudine con se stessi, nell’amor proprio e per il prossimo (“Una delle cose che dico sempre ai miei nuovi allievi è colui che pensa solo a se stesso ed è senza riguardi per gli altri, non è idoneo a imparare il Karate-dō” in G. F., ibidem, p.110).

La gestualità e i reciproci convenevoli, come sappiamo, sono ben diversi tra gli orientali e noi latini: strette di mano, baci e abbracci, per i più intimi persino “pacche” sulle spalle. È anche materia di studio nell’etologia in riferimento al comportamento degli animali, spesso per neutralizzare l’aggressività e favorire l’incontro, nella reciproca e pacifica conoscenza.
Il nesso tra mano e intelletto sancisce una delle differenze sostanziali tra l’essere umano e gli animali, come già sottolineava Aristotele in De partibus animalium: “Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’avere mani; è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente […] La mano sembra in effetti essere non un solo strumento, ma molti strumenti al tempo stesso, è infatti, per così dire, strumento prima degli strumenti”, (com’è anche scritto nella Bibbia dove Dio crea con la parola e con la mano).

Una chiosa di riflessione e analogia è qui dovuta e ci viene dallo Yoga con le Mudrā, dal sanscrito “gesto, attitudine o postura”: l’antica arte di comunicazione fra corpo, mente e coscienza, usata in buddismo, induismo, scuole tantriche e danze indiane.
A paragone e confronto di quanto detto, abbiamo un “sigillo” dei 25 Mudrā nell’Hatha Yoga, simile alla posizione iniziale di Jion e al saluto cinese di “amicizia”: il Shield of Shambhala. “Lo scudo di Shambhala” è segno di protezione da influenze esterne indesiderate e influssi negativi: mano sinistra aperta sul dorso adagiata su quella destra chiusa a pugno, eseguito all’altezza della spalla destra.

E perciò saluto… mani unite come segno di rispetto, ascolto e promessa di lealtà, atto iniziale, certo, singolo, frazione di secondo forse sfuggente, ma “primo passo” che giammai può essere sbagliato (Lao Tzu), peggio ancora, procrastinato o disatteso.  

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