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Lo strumento e il messaggio

Lo strumento e il messaggio
Il M° Shuhei Matsuyama durante uno stage - Foto di Alessia Parisse

Sembra scontato che l’arte della mano vuota instilli qualità come autocontrollo, gestione della rabbia, cortesia e solidarietà.

L’autodisciplina è tra le motivazioni più popolari citate per portare i bambini alla pratica del karate. Sembra scontato che l’arte della mano vuota instilli qualità come autocontrollo, gestione della rabbia, cortesia e solidarietà. Anche gli adulti spesso vengono incoraggiati a praticare per questi motivi. Il grande pubblico sembra accettare l’idea che tutti i calci e i pugni che vedono praticare nelle palestre di karate stiano in qualche modo forgiando degli esseri umani migliori, sia in senso spirituale, sia emotivo. Non dubito che alcuni individui siano diventati persone migliori frequentando un dojo, ma mi sembra semplicistico credere che il karate e le altre arti marziali siano di per sé una sorta di terapia magica. Trascorrere dieci anni sferrando calci e pugni probabilmente renderà il praticante medio un discreto esecutore di pugni e di calci, ma non c’è motivo logico o empirico per ipotizzare che crei dei cittadini modello, degli esempi per la loro specie. Crederlo significa confondere lo strumento con il messaggio.

Tanti karateka occidentali e il grande pubblico hanno confuso il mezzo con il messaggio.

Un buon esempio di questo malinteso si trova nei film Karate Kid.
Un ragazzino, senza obiettivi nella vita, scopre una nuova serie di valori, acquisisce una comprensione più matura del concetto di coraggio e sviluppa un senso di rispetto per se stesso e per gli altri grazie al suo insegnante di karate. È commovente. E gli spettatori, compresi i karateka, l’hanno accettato come una rappresentazione romanzata dei benefici dell’allenamento del karate nella vita reale.
Ma se si riguardano i film, si scoprirà che i cambiamenti avvengono tramite l’esposizione del ragazzo alla cultura tradizionale giapponese, di cui il suo insegnante è un rappresentante. Ad esempio, egli scopre che, sebbene il suo Sensei sia un eroe di guerra, non se ne vanta mai; che anche se la moglie del maestro è morta tragicamente, egli non si lamenta e non prova auto-commiserazione.
Il ragazzo viene sottoposto alla paziente disciplina necessaria per coltivare i bonsai ed eseguire la cerimonia del tè, ma questi concetti, idee e valori non gli vengono presentati perché essi siano parte integrante del karate (anche se dovrebbero certamente riflettersi nella sua pratica). Piuttosto, l’autodisciplina, l’integrità, l’empatia e tutte quelle altre buone qualità sono aspetti essenziali della cultura giapponese (e di Okinawa) che ha creato il karate e le altre arti marziali.

A quei giapponesi che intraprendono lo studio di un’arte marziale come il karate, questi valori sono stati instillati come un processo naturale della loro formazione culturale. E quando i loro insegnanti sono istruttori che hanno avuto esperienze simili, c’è una buona possibilità che trasmettano questi valori – o almeno il loro rispetto e apprezzamento – insieme ai pugni e ai calci, a un’altra generazione di karateka.
In queste circostanze, il karate offre l’opportunità di produrre esseri umani migliori, ma lo stesso vale per tutte le altre forme di Budo e la cerimonia del tè e altre arti tradizionali del Giappone, come la calligrafia e la disposizione dei fiori. Non importa quale sia il mezzo, il messaggio – la trasmissione e il perfezionamento dei valori morali e sociali – è lo stesso.

Cosa succede quando degli stranieri arrivano in Giappone senza essere sensibili a quei valori? Cosa succede quando quegli estranei presumono che le straordinarie performance di calci e pugni siano il messaggio e non solo il mezzo? O, cosa altrettanto frustrante, cosa succede quando gli insegnanti giapponesi vengono in Occidente con idee sbagliate, tra le quali la convinzione che gli occidentali non siano in grado di assorbire il messaggio di quei valori, e insegnano solo gli aspetti più superficiali del mezzo?
Questa preoccupazione vi suona familiare? In larga misura, questo è esattamente quello che è successo ed è per questo che così tanti karateka occidentali e il grande pubblico hanno confuso il mezzo con il messaggio. Continuano a sferrare calci e pugni, supponendo che in qualche modo il farlo insegnerà loro dei valori, quando invece non lo farà. Senza una comprensione della cultura che sta dietro quei calci e quei pugni, non lo farà mai.

Il karate offre l’opportunità di produrre esseri umani migliori, ma lo stesso vale per tutte le altre forme di Budo.

Non intendo sostenere che la cultura del Giappone tradizionale sia l’unica che insegni questi valori e questa etica e, certamente, non suggerirei che i karateka giapponesi ne siano sempre ottimi esempi. Altre culture hanno prodotto concetti simili ed esistono esempi di alta morale tra coloro che non si sono mai allenati in nessun tipo di arte marziale. Ma l’approccio del Budo a questi valori è unico, perché offre anche dei benefici che non possono essere replicati attraverso nessun altro processo.
Né desidero insinuare che solo i giapponesi siano in grado di comprendere i valori tradizionali giapponesi o che si debba “diventare” giapponesi per accedervi: ho davanti a me esempi eccellenti di maestri miei connazionali che padroneggiano l’aspetto etico del Karate-do. Chiunque voglia aprirsi a un’altra cultura può raggiungere questo obiettivo.
Ma se si intraprende lo studio del karate è cruciale assicurarsi di studiare con un insegnante che sia un prodotto di quella cultura. Se quell’insegnante ha familiarizzato solo con il lato fisico del karate, non importa quanto sia abile, non può fare altro che insegnare agli altri a tirare calci e pugni. Sta usando lo strumento, ma purtroppo e troppo spesso nelle moderne palestre di karate, il messaggio resta in ombra o viene travisato.

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