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Note a margine di uno stage – 20-21.03.2021

Il cosiddetto karate tradizionale è meno monolitico di quanto si creda e i diversi approcci all’insegnamento a distanza ne hanno offerto, sabato e domenica, esempi convincenti e significativi.

Se qualcuno immaginava che il ritorno del maestro Shirai all’insegnamento, in occasione del raduno tecnico nazionale della Fikta del 20-21 marzo 2021, sarebbe stato l’occasione per un vigoroso, anche se virtuale, allenamento di gruppo, sicuramente sarà rimasto deluso. Non era possibile gestire in tal modo un incontro a distanza con 500 maestri di karate: ciascuno di noi ha sperimentato in quest’anno di pandemia e distanziamento, da discente o da docente, quanto sia difficile trovare i tempi giusti per insegnare qualcosa e far esercitare chi ci guarda e ci ascolta, senza la possibilità di avere un feedback immediato da una platea così vasta, né di intervenire al momento opportuno per correggere un passaggio che qualcuno sbaglia.
Ma non era questa l’intenzione del maestro Shirai nell’aderire con entusiasmo alla richiesta della federazione: lo stage era diretto a dei tecnici di alto livello e, come spesso è accaduto anche nei corsi in presenza, si è trattato di presentare un modello di lezione di karate tradizionale, tramite una progressione didattica che forse non è fuori luogo analizzare.

Si è trattato di presentare un modello di lezione di karate tradizionale, tramite una progressione didattica.

La lezione del Maestro è cominciata all’insegna dell’“apprendimento globale” (Miller, 1987):

“Lo stile globale processa l’informazione ‘dal tutto alle parti’. Tramite questo stile le persone rappresentano l’informazione nella sua totalità, ricorrendo successivamente a delle inferenze; chi adotta questo stile è in grado di creare connessioni concettuali tra i diversi oggetti di studio e di collegare velocemente la teoria alla pratica. […] Durante l’esecuzione di un compito, la persona è portata ad avere una visione globale del materiale necessario e a muovere successivamente verso il particolare; lo scopo consiste nel creare un quadro d’insieme di tutti gli argomenti presentati.”

Concretamente, il maestro Shirai ha presentato ai due “discenti-modello” (i maestri Carlo Fugazza e Silvio Campari) una sequenza di 27 tecniche, che è stata ripetuta fino a memorizzarla, a scriverla per sempre nella memoria corporea dei due maestri e, (almeno si immagina e spera), in quella delle centinaia di tecnici che da “remoto” hanno fatto del loro meglio per imitarli.
Quanto sia conforme al modello tradizionale questa modalità didattica sarà chiaro ai molti che tra noi hanno letto le memorie del maestro Funakoshi (Gichin Funakoshi, Karate-Do my Way of Life.) e la sua rievocazione delle interminabili ripetizioni del kata Jion nel cortile della casa del maestro Anko Asato, interrotte solo dall’esortazione “Ancora! Ancora” sussurrate nel cuore della notte di Okinawa.

Solo successivamente è intervenuto il primo momento analitico, con la “spezzatura” della sequenza in due parti e un maggiore focus sui dettagli e sui passaggi più ardui e significativi. A un momento ancora posteriore è stata demandata la divisione dei ruoli fra Tori e Uke, e finalmente l’applicazione in coppia che forse, in un modello “occidentale” di apprendimento, sarebbe arrivata per prima.
Solo allora sono arrivate le correzioni del Maestro: piccole cose, dettagli, come la richiesta di accelerare un passaggio in henka allo scopo di disorientare l’avversario, creando kyo nella sua difesa e fingendo di calciare con una gamba mentre si cambia guardia e si esegue maegeri con l’altra. Interrompere con dei suggerimenti la fase precedente di memorizzazione sarebbe stato infatti controproducente, ostacolando l’interiorizzazione della sequenza e la sua visualizzazione come combattimento reale.

Un metodo solo lievemente diverso è stato successivamente usato dal maestro Shirai per insegnare agli stagers (sempre passando dal tramite dei maestri Fugazza e Campari) una forma evoluta del bunkai del kata Heian Nidan, Oyo Happo Bunkai. Nella preistoria della teoria e pratica dell’applicazione dei kata (penso ad esempio alla lodevole serie editoriale del maestro Nakayama, Best Karate), una volta appreso un kata, i suoi passaggi più significativi venivano occasionalmente applicati in coppia, nella successione e nella direzione indicate dal kata: un bunkai per così dire “giustificazionista”, senza ancora la volontà chiara di svilupparlo come pratica del combattimento ispirata alle caratteristiche specifiche di quel kata.

Il karateka evoluto deve essere in grado di applicare qualsiasi tecnica letteralmente a 360°!

A livello avanzato di studio dei bunkai, invece, la sequenza dei diversi momenti applicativi viene dapprima appresa e ripetuta a vuoto, come se essa stessa fosse un kata. L’esercizio è difficile e inizialmente scoraggiante a causa delle continue interferenze col kata stesso, nel quale gli attacchi spesso provengono da direzioni diverse rispetto al bunkai.
Anche in questo caso il momento della memorizzazione è importante e va inteso come serie di annotazioni da inserire nei nostri schemi motori, senza però che si fossilizzino, nell’attesa di un’evoluzione ulteriore. Per evitare (ad esempio) che l’allievo si auto-limiti, allenando la sequenza uchiuke tsukami maegeri gyakuzuki solo contro un attacco frontale, la versione evoluta del bunkai presentata dal Maestro allo stage ci chiede di applicarla contro un avversario che ci attacca alle spalle. Ma nella pratica del bunkai, come ripete spesso il maestro Fugazza, il karateka evoluto deve essere in grado di applicare qualsiasi tecnica letteralmente a 360°!

Appreso globalmente il bunkai, il Maestro è passato alla fase analitica, ripetuta fino alla perfezione tecnica e realistica dei gesti e alla massima efficacia. Temporaneamente accantonata la globalità dell’esercizio, la prima tecnica del bunkai (difesa contro un attacco di renzuki) e via via tutte le altre, sono state allenate in coppia, in versione omote e ura, alternando i compiti di attaccante e difensore perché il ritmo non calasse mai: si è visto allora quello che si era solo intuito, ovvero la tremenda efficacia di gesti apparentemente semplici come una parata jodan, una leva e due contrattacchi, in una sequenza davvero micidiale.
Naturalmente questa è stata la parte dell’allenamento in cui chi, come me, si allenava senza partner ha potuto interpretare solo uno dei due ruoli, rimandando a tempi più fortunati il collaudo dell’applicazione con un compagno di allenamento. Confesso che in questa fase della lezione ho indugiato volentieri nell’osservazione ammirata della bravura del mio maestro, Carlo Fugazza, e del suo degno partner, Silvio Campari. Le lodi del maestro Shirai nei loro confronti non sono certo state di maniera, bensì un giusto riconoscimento a chi si stava prodigando, per così dire senza rete, per dare il massimo davanti a mille occhi attenti (in questo caso non è un’iperbole) che avrebbero fatto tesoro del loro esempio, umano prima ancora che tecnico.

Questo articolo si concentra soprattutto sulla lezione del maestro Shirai, perché ero estremamente interessato a vedere come il suo approccio unico all’insegnamento si sarebbe adattato alla modalità a distanza e all’occhio di una videocamera. Oserei dire che è successo il contrario: è stata la videocamera a entrare in punta di piedi sul tatami dello Yama e a dare, non sempre con l’inquadratura più efficace, il senso del lavoro del Maestro; di più non le si poteva chiedere e un ipotetico operatore che si fosse mosso sul tatami avrebbe costituito un insopportabile elemento di disturbo.
Un articolo a parte meriterebbero le altre lezioni del raduno: quella del maestro Giacobini, “uno di noi” nel comandare e allenare insieme a tutti noi, dal soggiorno di casa, alcune tecniche di kumite secondo le varie strategie del combattimento, e quella del maestro Campari, più vispo che mai un quarto d’ora dopo il tour de force appena descritto, energico e coinvolgente nel presentarci nove spostamenti laterali e circolari, associati a una raffica di tecniche difensive e offensive. 

È stata la videocamera a entrare in punta di piedi sul tatami dello Yama.

Ma il grande Silvio è ormai un veterano dell’insegnamento a distanza, come del resto i maestri Cardinale e Acri che domenica mattina ci hanno introdotto alle sottigliezze del kata Unsu, con una didattica simmetricamente speculare rispetto a quella del maestro Shirai: partendo dai dettagli e da alcune posizioni e tecniche particolari (Cardinale) per poi fonderli in una sintesi difficile ma mai raffazzonata e affrettata (Acri).
Il cosiddetto karate “tradizionale” è meno monolitico di quanto generalmente si creda e i diversi approcci all’insegnamento a distanza ne hanno offerto, sabato e domenica, esempi convincenti e significativi.

 

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