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La Transizione nel Karate

La Transizione nel Karate
Foto di Alessandra Capraro

Che si tratti di un pugno o di un calcio è importante sapere dove mi trovo e dove voglio andare. Tra i due fotogrammi si colloca la transizione.

Transizióne s. f. [dal lat. transitio -onis, der. di transire «passare»]

Parlando di chimica o fisica, chiameremo “transizione” il passaggio da uno stato a un altro di un sistema chimico-fisico quanto meccanico; in aeronautica, la transizione è la fase del decollo tra lo stacco da terra e l’assetto di crociera; in genetica, la transizione è una mutazione dei geni; in tecnica delle costruzioni, la transizione è la fase di costipamento del calcestruzzo, ovvero il momento in cui il materiale fresco assume le caratteristiche di maggior compattezza, omogeneità e densità possibili.
In generale, la transizione è un momento di passaggio da una situazione ad un’altra. La transizione è viva mentre avviene; essa cessa di esistere quando è terminata e non esisteva prima di iniziare.

Mi pare che la transizione sia una questione di radicamento al terreno, almeno quanto di libertà di movimento; nasce dal centro del corpo e si libera come una molla.

Nel Karate
Nel karate, la transizione è la fase di passaggio tra due tecniche. Solo il praticante può essere artefice di questa mutazione. La giusta quantità di energia che servirà per trasformare una tecnica in un’altra può avere origine solo dalla nostra volontà.
Il vuoto che NON vogliamo è la perdita di coscienza, di attenzione, che talvolta intercorre tra due tecniche, come una mancata contrazione che scarica tutta l’energia invece di trattenerla. In quel vuoto, nella decontrazione massima, non ci può essere forza e non ci potrà essere prontezza. Se l’apice di una tecnica è il kime, cioè uno stato di contrazione massima, allo stesso modo dobbiamo trovare le radici di quella tecnica nello zanshin, che significa “mantenere lo spirito all’erta”.
Una tecnica non può nascere dal nulla, essa nasce prima di tutto dalla mente. Uno stato di quiete possiede energia potenziale che, per essere trasformata in movimento, deve incontrare la nostra volontà precisa e una preparazione atletica consona. Una roccia in cima a una montagna non potrà rotolare a valle se non le viene data una spinta.

Il karate deve essere pieno, come un’onda che si gonfia, s’infrange sugli scogli e subito si ritira per gonfiarsi ancora.
La transizione è nella capacità di spostarsi da qui a lì con intenzione – non cadere sulle tecniche, non rallentare, non perdere il ritmo – è nell’energia che si muove sempre avanti.
Spesso il Maestro Shirai insiste sull’immagine della tecnica che dobbiamo avere nella mente, prima ancora di iniziare a praticare; che si tratti di uno spostamento, di un pugno o di un calcio, o di queste tre cose insieme, è importante sapere dove mi trovo e dove voglio andare. Tra i due fotogrammi si colloca la transizione, qualcosa che esiste solo mentre accade. La immagino come una scia di luce quasi inconsistente, come tanti fotogrammi che si accavallano per formare un flusso.

La transizione è spesso un elemento mancante nelle maggior parte delle nostre esecuzioni; talvolta manca perché non ci accorgiamo delle sua assenza. Un occhio esperto, guardandoci da fuori, lo saprà, ma noi no. C’è sempre un livello di fatica maggiore che possiamo raggiungere o un nuovo grado di velocità da assumere, ma non lo sapremo finché non lo avremo ottenuto. Ci sembrerà che stiamo dando il massimo, per poi scoprire che non è vero, che c’è qualcosa di più, che ci stavamo accartocciando su un’abitudine.
Mi pare che la transizione sia una questione di radicamento al terreno, almeno quanto di libertà di movimento; nasce dal centro del corpo e si libera come una molla, trasferendo energia dal centro alle estremità e poi indietro, per ricominciare. Per avere una buona transizione è necessario muovere l’anca correttamente, in quanto l’uso dell’anca garantisce la qualità del movimento, migliora la dinamica delle esecuzioni, aumenta la forza.

Di recente ho introdotto nei miei allenamenti settimanali anche un’ora di ginnastica funzionale, che per troppo tempo era mancata nella mia preparazione. La ginnastica funzionale contribuisce ad aumentare la consapevolezza del funzionamento della muscolatura e a valutare meglio i limiti delle nostre articolazioni, ribaltandosi in modo molto efficace sulla pratica del karate. Abbiamo muscoli “nascosti” che usiamo poco e male, mentre  spesso sono proprio questi muscoli a giocare un ruolo essenziale negli spostamenti, nella potenza, nella velocità e nella transizione.
Prendiamo l’oizuki ed eseguiamolo con spostamento in zenkutsu dachi avanti: non è mai solo un pugno, ma è un sistema in movimento, dove il sistema è il nostro corpo che si muove nello spazio e nel tempo, sottoposto a tutte le leggi di gravità, dell’attrito e dell’inerzia. Non è necessario avere pettorali e addominali scolpiti per essere forti, ma è necessario usare la muscolatura nel modo giusto, assumendo una postura corretta, a partire dalla testa, fino alle punte dei piedi. Non tutti abbiamo doti fisiche naturalmente eccezionali, molti di noi devono lavorare sodo per ottenere un minimo risultato, per alzare di un centimetro l’altezza del calcio mawashi geri, per allungare la posizione kokutsu dachi, per velocizzare di mezzo secondo la parata age uke.

Prendiamo l’oizuki ed eseguiamolo con spostamento in zenkutsu dachi avanti: non è mai solo un pugno, ma è un sistema in movimento, dove il sistema è il nostro corpo che si muove nello spazio e nel tempo.

La transizione deve essere studiata proprio come tutto il resto; la si deve allenare in modo costante, perché si può perdere, proprio come il tono muscolare dopo un periodo di riposo. Ed è il genere di studio che può fare la differenza quando si cerca di perfezionare la tecnica.
Il cammino è sempre arduo; la transizione può essere solo il coronamento di tutti gli altri aspetti fondamentali dell’arte marziale. Bisogna sapere come usare i piedi e le mani, conoscere le basi, saper respirare, trovare l’equilibrio, imparare a fondere spirito e mente.

Senza comprensione, la conoscenza e la pratica sono spesso di scarsa utilità. Tutte e tre sono interdipendenti.
È così per ogni cambiamento nella vita: probabilmente non durerà mai, se non capiamo i veri motivi per cui vogliamo cambiare. Se non ci prepariamo, è improbabile che sarà duraturo. E se a un certo punto non ci lanciamo e non proviamo, ci neghiamo qualunque possibilità.

(tratto da La Mente Tranquilla, Gyalwa Dokhampa)

 

NOTA BIBLIOGRAFICA
G. DOKHAMPA (2016). La Mente Tranquilla. Un nuovo modo di pensare. Un nuovo modo di vivere, Roma, Ubaldini Editore.
TRECCANI, La cultura italiana. Vocabolario on-line, “Transizione”. (www.treccani.it/vocabolario/transizione)

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