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Due modi di studiare i kata

Due modi di studiare i kata
FOTO di Fabrizio Bagnoli

Che si studino i kata e il loro bunkai come dei classici o come dei repertori per il combattimento, è importante rispettarli.

I kata classici sono lo strumento grazie al quale il karate è stato tramandato fino ai nostri giorni. Vi è una profonda analogia con la letteratura (e con altre arti): se un giorno il genere umano si estinguesse (e non è detto che a forza di provarci non ci riesca), gli esploratori provenienti da un’altra galassia potranno conoscerci attraverso le opere allineate in una polverosa biblioteca o galleria d’arte e dai monumenti sopravvissuti alla catastrofe. Sapranno così a quale livello di genialità si è innalzato l’homo sapiens sapiens creando capolavori come l’Iliade, Macbeth, Guerra e pace, la Gioconda, il Colosseo e si chiederanno quale malvagio virus l’abbia poi portato all’autodistruzione, non l’HIV o il COVID, ma l’avidità, l’intolleranza, il razzismo.
Come i capolavori della letteratura, anche i kata del karate possono essere studiati con due modalità differenti: come classici o come repertori.
Studiare un kata come un classico significa riconoscerne il valore unico di combattimento reale disputato in epoca remota e poi annotato da un maestro del quale si conosce, forse, solo il nome; fissarne la forma in modo che non possa essere cambiata ad arbitrio degli esecutori per evitarne i passaggi più difficili; capirne la strategia; interrogarlo nei punti più ermetici per cercare di colmare quelle che a noi sembrano delle lacune; impararlo e cercare di eseguirlo nello spirito in cui è stato ideato; farne forse il proprio tokui kata.

I kata del karate possono essere studiati con due modalità differenti: come classici o come repertori.

Prendiamo un kata come Bassai-dai, forse il più frequentato dai praticanti di stile Shotokan, anche perché richiesto dalla maggior parte delle scuole all’esame di cintura nera. Sappiamo che il suo nome significa “penetrare in una fortezza” e, quindi, che la sua esecuzione deve dimostrare vigoria e decisione. Eppure, dopo la sua celebre partenza con fumikomi in kosadachi, che dà l’idea di un colpo d’ariete in grado di sfondare la porta di una città assediata, il kata prevede una serie di doppie parate in tre direzioni diverse, senza contrattacchi visibili. La prima tecnica offensiva (un semplice chokuzuki in hachijidachi, la prima tecnica che impara un principiante) si verifica all’undicesimo passaggio del kata. Perché i contrattacchi sono scomparsi? Al di là degli enigmi che contiene, Bassai dai ci dà l’idea di un’aperta sfida in campo aperto, in cui ci si muove liberamente fronteggiando un certo numero di avversari. 

I tre Tekki ci presentano una situazione molto diversa, nella quale il difensore si sposta su una linea retta, quasi avesse un muro o un precipizio alle proprie spalle, utilizzando quasi esclusivamente la posizione del cavaliere. Sembrerebbe tutto un altro stile, nel quale la robustezza della base gioca un ruolo determinante. Un “libro” del tutto diverso da Bassai-dai e forse per alcuni meno affascinante, ma altrettanto importante per temprare il corpo e completare la propria formazione.

Studiare un capolavoro (della letteratura o delle arti marziali) come repertorio significa estrapolarne un capitolo, una pagina o una frase, per utilizzarla in un contesto diverso. Già in epoca classica esistevano repertori omerici e virgiliani, e se guardiamo ai nostri studi liceali ci accorgeremo di ricordare di qualche autore solo una frase, una battuta, diventata proverbiale tanto da poter essere applicata in epoca diversa: “l’ira funesta”, “amor che a nullo amato amar perdona”, “il fine giustifica i mezzi”, “l’ordine regna a Berlino”, “c’è del marcio nel regno di Danimarca”, sono solo i primi esempi che mi vengono alla mente. I classici sono così vasti e sconfinati che recuperarne un pezzettino significa fare un’orecchia alla pagina per ritrovarla più facilmente. Un’operazione non elegante, ma utile.

Dire kata, almeno per chi pratica karate tradizionale, significa anche dire Bunkai.

Anche i kata classici del karate, almeno a partire da fine Ottocento inizi del Novecento, sono stati usati come repertori: speriamo di non essere messi al rogo se diciamo che i cinque Pinan (poi ribattezzati Heian dal maestro Funakoshi) sono altrettanti “bigini”, repertori di difese e attacchi che il maestro Itosu estrapolò soprattutto da Kankudai, Jion e Bassai dai per insegnare l’“ABC del karate” agli studenti delle scuole superiori di Okinawa. In mancanza di materiale più adatto, si può certo insegnare l’italiano a uno straniero o a un bambino usando i Promessi Sposi, ma un’antologia adattata ad hoc funzionerà meglio.

I kihon, ricordava il maestro Nakayama, sono repertori di spostamenti, difese e contrattacchi estrapolati dai kata, per essere allenati estensivamente fino a padroneggiarli (le famose “vasche di fondamentali” che qualche “modernista” rimprovera ai praticanti di karate tradizionale). Non si può fare a meno dei kihon, perché ripetere all’infinito tutto un kata, per padroneggiarne un singolo passaggio difficile, porterebbe via troppo tempo ed energia. Tornando a Bassai-dai, quale metodo è più efficace secondo voi per perfezionare fumikomi? Eseguire cento Bassai-dai o cento fumikomi?
Dire kata, almeno per chi pratica karate tradizionale, significa anche dire Bunkai. Lo studio delle applicazioni dei kata è forse la branca del karate che ha conosciuto negli ultimi decenni lo sviluppo più rigoglioso. Grazie alla ricerca del maestro Shirai e di pochi altri, si è passati dal bunkai “giustificazionista” degli anni 60-70, che spiegava il kata passo passo seguendone l’embusen, al bunkai che isola un certo numero di sequenze tipiche di un kata per applicarle in tutte le direzioni, in versione omote e ura. 

Torniamo quindi a parlare di repertorio di un kata, ma nel senso di una fase di combattimento estrapolata da un kata, che può essere allenata autonomamente da soli e in coppia fino a padroneggiarla. 
Gioveranno due esempi concreti:

  • Il kata Wankan si conclude con una sequenza travolgente: kentsuiuchi in kibadachi seguito da tre attacchi di maegeri oizuki per concludere con yamazuki alle proprie spalle. Questa sequenza costituisce un’unità logica e può essere allenata contro un unico avversario, parando un suo tzuki con kentsuiuchi e incalzandolo con una o più combinazioni maegeri oizuki.
  • Il kata Chinte prevede una serie di spostamenti in kibadachi eseguendo due volte gedan-uke con le mani aperte, seguito da kakiwake-uke e da un kamae in tsuruashi-dachi. Il bunkai implica una serie di attacchi alternati di pugni e di calci da parte di un avversario che proviene da sinistra, da cui ci si difende con le parate del kata, concludendo con un subdolo kin-geri.

I cinque Pinan (poi ribattezzati Heian dal maestro Funakoshi) sono altrettanti “bigini”.

Immaginate di estrapolare tre o quattro di queste sequenze da altrettanti kata superiori e di allenarle in coppia: dopo un po’ di tempo diventano vere fasi di combattimento e i rispettivi kata sembrano lontani dalla vostra mente conscia. Ma se avete un momento di esitazione, in questo difficile esercizio che ci è stato recentemente proposto, il maestro ci raccomanda di tornare sempre al kata: “Cosa ti dice il kata? Di andare avanti o indietro? E allora fallo…”.
Che si studino i kata e il loro bunkai come dei classici o come dei repertori per il combattimento, è importante rispettarli, non stravolgerne l’esecuzione o il ritmo per renderli più facile o “impressionanti”, e nel bunkai non cercare i numeri da circo, ma realismo, verosimiglianza ed efficacia concreta.

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