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Il karate non è divertente, proprio per questo lo pratico ancora

Il karate non è divertente, proprio per questo lo pratico ancora

Il karate può essere divertente per brevi periodi… Quando il divertimento è finito, cominciano le domande e le contraddizioni.

Il karate non è divertente. Non assomiglia al calcetto, o al ping-pong, o al minigolf. Non lo si pratica per passare il tempo, per svagarsi insieme agli amici, per passare un’ora in relax.
Intendiamoci, il karate può essere divertente per brevi periodi. Nel periodo iniziale della luna di miele, quando a ogni lezione impari una “mossa” nuova, ogni quattro o sei mesi cambi il colore della cintura e ti illudi di essere diventato bravo, ti diverti. Nel migliore dei casi, se davvero sei bravo, può essere divertente partecipare alle gare di karate, sempre che tu riesca a salire sul podio e nessuno ti spacchi un labbro. In ogni caso, prima o poi, e nella maggior parte dei casi più prima che poi, il divertimento finisce.
Quando il divertimento è finito, cominciano le domande e le contraddizioni. Dal modo in cui si risponde alle prime e si affrontano le seconde dipende il proprio futuro di karateka, anche se al momento nessuno ne è pienamente consapevole.

Perché l’insegnante ci tratta come scolari delle elementari o come reclute?

Le prime domande: perché continuo a praticare? Mi sto in qualche modo avvicinando agli obiettivi che mi ero posto quando mi sono iscritto al corso? Nel caso (il mio) che la motivazione sia l’autodifesa, sto acquisendo gli strumenti necessari per sentirmi più sicuro in caso di aggressione? In quanto tempo potrò sentirmi adeguatamente “attrezzato”? Vale la pena investire tempo e fatica per conseguire una meta che sembra allontanarsi?
La prima contraddizione, almeno per quanto mi riguarda, è stata tra la mia formazione ideologica progressista e l’impostazione autoritaria dell’insegnamento, più frequente cinquant’anni fa, ma sicuramente non rara neppure ai giorni nostri, almeno nelle palestre di karate tradizionale. Perché l’insegnante ci tratta come scolari delle elementari o come reclute? Perché non risponde alle nostre domande, ci fa girare a saltelli se arriviamo in ritardo o ci rimprovera davanti a tutti se sbagliamo qualcosa? Perché parla per infiniti e sembra sempre di malumore? Come mai nota sempre gli errori e mai i progressi? E soprattutto: come a faccio a sopportare tutto questo io che, tra virgolette, “ho fatto il ’68” contro la scuola autoritaria?

In tutta sincerità, al tempo nessuno mi ha preso da parte per spiegarmi la genesi e le motivazioni di quella didattica: se ho superato lo choc culturale e ho accettato in palestra un tipo di rapporto al quale mi opponevo strenuamente nella vita di tutti i giorni, è stato grazie alla curiosità intellettuale che mi ha spinto a documentarmi, leggendo libri e riviste (allora Internet non esisteva) per comprendere le tormentate vicenda della trasmissione in Occidente delle arti marziali orientali. Ho capito che, nonostante la disciplina ferrea che ci imponevano in pedana, i miei insegnanti erano abili e soprattutto profondamente motivati a trasmetterci quei contenuti e quegli ideali che anch’essi avevano appreso nella stessa maniera.
In questo insight [Intuizione, presa di coscienza NdR] mi ha aiutato il rapporto con mio padre, che mi voleva molto bene, ma riusciva a esprimerlo solo attraverso le rigide modalità di un ex-ufficiale dell’esercito austro-ungarico (molto diverso da un mammo del 21° secolo).

Le percentuali di abbandono più alte si hanno (a parte il caso limite delle cinture bianche) tra le marroni e i primi Dan.

Le domande e le contraddizioni continuano una volta superato l’ostacolo dell’esame di cintura nera.
La domanda, brutale se si vuole rispondere sinceramente, è questa: “Bene, ora che indossi la tua cintura nera nuova fiammante (che tu invece vorresti fosse già almeno un po’ logora…) ti senti diverso? Padroneggi il karate? Sai difenderti?”. Se la risposta è un triplo no (come nel mio caso) è chiaro che per proseguire, si dovrà attingere a nuove motivazioni: non a caso le percentuali di abbandono più alte si hanno (a parte il caso limite delle cinture bianche) tra le marroni e i primi Dan: quelle perché il loro obiettivo sembra ancora lontano, questi perché si illudono di aver raggiunto la meta: come se qualcuno smettesse di scrivere una volta superato l’esame di maturità (cosa che purtroppo talvolta succede davvero)!

I conflitti interiori che un praticante di lungo corso dovrà inevitabilmente affrontare e risolvere riguardano anzitutto la posizione del karate nella scala delle priorità: quante volte dovrà, o vorrà, dare la precedenza all’allenamento rispetto a una serata in famiglia, o a un appuntamento con la fidanzata, o a una breve vacanza? A mio parere la sua scelta dovrà sempre essere voluta, mai subita, e idealmente condivisa: niente è peggio di un allenamento controvoglia, rimpiangendo un’occasione perduta, dopo aver scontentato il/la partner. Sono le premesse di conflitti ulteriori e della perdita di entusiasmo per la pratica.
Immaginiamo il nostro stoico praticante superare con successo il traguardo dei trenta, o quaranta, o cinquant’anni di pratica: un traguardo che fortunatamente molti, in tutto il mondo, hanno varcato senza troppi danni. È tutto scontato per un 6° Dan sessantenne oppure per (esempio del tutto casuale) per un 5° Dan settantenne?
Assolutamente no! D’ora in poi la sua battaglia sarà inevitabilmente contro il tempo e i piccoli o grandi acciacchi che “animeranno” la sua vita e la sua pratica.

Non pochi tra noi continuano a praticarlo finché la forza fisica e soprattutto quella interiore ci sostengono.

Si chiederà se fermarsi al primo (o al decimo) dolore al ginocchio; se sia meglio “fare piano” (ipotesi suggestiva quanto remota!) o stare a casa una settimana, imbottendosi di antinfiammatori (poco utili) o di “rimedi naturali” (utilissimi come placebo). In ogni caso, alla ripresa degli allenamenti, si ritroverà invariabilmente di fronte un maestro che lo esorterà a stare più basso e/o a fare più forte: prima di accusarlo di insensibilità, farà bene a ricordarsi che chi insegna non può tenere una scheda aggiornata dei malanni dei suoi trenta allievi, soprattutto se questi sono troppo timidi, o troppo orgogliosi, per informarlo prima dell’inizio delle ostilità.
Insomma, per tornare al titolo, il karate non è quasi mai divertente, ma nonostante questo, o forse proprio per questo, non pochi tra noi continuano a praticarlo finché la forza fisica e soprattutto quella interiore ci sostengono: è parte della nostra vita (che a sua volta è raramente divertente) e grazie ad esso attingiamo all’energia del nostro Maestro e dei nostri compagni di allenamento, contribuendo noi stessi ad alimentare quello che Funakoshi Sensei, non senza enfasi, ma con assoluta chiarezza, chiamava “il fuoco dell’anima”. Vi sembra poco?

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