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Luigi Maria Perotti, il regista di “Black Samurai”

Dopo la visione di “Black Samurai”, il docufilm di RAI 3, abbiamo intervistato il regista per saperne di più su questa incredibile storia che arriva dalla Tanzania.

Come sei venuto a conoscenza della storia di Jerome Mhagama?
Io di mestiere racconto storie che trovo un po’ girando, quando lavoro per la RAI, e un po’ leggendo i giornali.
Era uscito un articolo riguardo a un film che avevo girato qui in Italia e nella pagina a fianco c’era un altro articolo, molto più interessante, che parlava di questo Maestro Jerome che insegna karate agli albini in Africa.
Ho cercato il suo nome in Facebook e devo ammettere che al tempo ero abbastanza digiuno di arti marziali, uno che guardava giusto i film, quindi, conosco l’aura che c’è attorno all’esercizio delle arti marziali in quel modo, ma non avevo una conoscenza specifica di quello che significasse il karate.
Così decisi di scrivergli in Facebook e, praticamente cinque mesi dopo, sono andato a incontrarlo a Dar Es Salaam, dove ho trovato una realtà pazzesca. La prima cosa che ha messo subito in chiaro è stata: “Voi occidentali considerate il karate uno sport, ma il karate non è uno sport. È tanto di più”.
Questa è una cosa che mi ha molto stuzzicato: che cosa significava tale affermazione? 

Voi occidentali considerate il karate uno sport, ma il karate non è uno sport. È tanto di più— Jerome

Quali sono state le tue prime impressioni in Tanzania?
In Tanzania mi sono trovato davanti a una realtà, ma credo che valga per l’Africa in generale, dove c’è un’assenza di strutture sociali decenti. Spesso è la religione a fare la differenza: dà una speranza alle persone, strutturando le loro vite in un certo modo, per cui vivono seguendo certi dettami.
Il karate però, da quello che ho capito, riesce a dare maggiori “garanzie” rispetto a una religione. Nel senso che se applichi le regole del karate hai già degli effetti reali nella vita, senza dover aspettare l’aldilà.
Vedevo questi praticanti che si muovevano come jedi del film “Star Wars” e che parlavano della forza con gli stessi termini con i quali vi si riferiva Luke Sky Walker (personaggio della trilogia di “Star Wars” NdR). Si muovevano come dei supereroi, perché la capacita di gestire la forza dà loro un potere in più rispetto agli altri, soprattutto all’interno di una società in cui governa la legge “del più forte”.
In base anche alla filosofia che c’è dietro al karate, si rendono conto di avere dei “poteri” e, quindi, delle responsabilità. Tutto questo intreccio, in un contesto come quello, mi ha fatto innamorare della storia e ho deciso di girare delle immagini che sono servite poi ad attrarre dei finanziamenti per portare avanti il progetto. 

Quante volte sei andato in Tanzania?
Sono andato in Tanzania due volte per girare appunto quello che poi è diventato il documentario Black Samurai. L’idea era proprio quella di raccontare un contesto di “supereroi”, perché loro sono considerati come tali. Molti nel dojo di Jerome hanno approcciato la palestra perché hanno subito un torto (di quelli che a noi sembrerebbero devastanti, come uno stupro in famiglia…) e vi si sono avvicinati per desiderio di vendetta, ma quello che hanno ricevuto in cambio è un nuovo stile di vita, una nuova consapevolezza. È come se fossero rinati.
Ho sentito molte storie pazzesche di diverse persone che da com’erano sono diventate completamente diverse. Ad esempio, Jerome mi raccontò: “Questa persona l’ho beccata con le mani nella mia borsa, così gli ho detto: io ti lascio andare, ma domani devi venire al dojo. Vedi, attraverso la disciplina è riuscito a trovare una via nuova, una speranza per diventare una persona nuova.”
Questa cosa mi ha fatto “innamorare”. Noi veniamo da un mondo estremamente concreto, in cui le cose non sono mai così. Sembrava un film mentre me lo raccontava e avendo visto queste persone, e l’impatto che l’arte marziale ha avuto nelle loro vite, ho deciso di puntare su questa cosa. Devo dire che è stato molto semplice, a chiunque facessi vedere le immagini che avevo girato mi dicevano “ok, noi ci siamo”.

Come nasce questo interesse di Jerome per i ragazzi albini?
Sai, Jerome si sente una grande responsabilità. Grazie al karate, chi pratica ha assunto un potere e deve dare questa forza in termini di aiuto al prossimo, e a chi se non agli albini che sono gli ultimi degli ultimi in quel contesto sociale?
Mammoud, uno degli uomini che frequentava il suo dojo, aveva all’epoca due nipoti albini, che sono i protagonisti del mio documentario, Zungu e Athoumani. Non sono suoi figli, ma di sua sorella che aveva sposato un uomo il quale, al nascere del secondo figlio albino, l’aveva rispedita alla famiglia d’origine, perché non voleva averne più (pensava di essere maledetto). Così, Mammoud si è preso la sorella a casa con i suoi due figli albini, mentre nel frattempo lui e sua moglie ebbero altri figli albini.
Quindi, adesso vive in una casa con ben cinque ragazzi albini. Una casa senza finestre e senza porte, in un contesto in cui le persone guadagnano dieci dollari al mese quando va bene.
Quando Jerome ha scoperto che Mammoud non avrebbe più potuto frequentare la palestra, perché aveva paura di lasciare i bambini albini a casa soli e, quindi, in pericolo, si è offerto di dare lezioni gratuite a questi ragazzi.
Nel frattempo, la moglie di Jerome (di origini polacche) ha visto in questa cosa una prospettiva e ha coinvolto l’ambasciata polacca per ricevere dei fondi, affinché Jerome potesse girare nei vari quartieri dove vivono questi albini, per dare lezioni gratuite di karate. Da lì è nata la scintilla, per cui loro vogliono fare in modo che questa idea possa diventare qualcosa di più concreto.

L’anteprima del film andato in onda su RAI 3, racconta questa fase dell’iniziazione di Zungu al karate.— Luigi Maria Perotti

Intendono costruire un dojo non solo per gli albini, ma dedicato a tutte le categorie considerate più deboli in Africa, in cui i ragazzi possano praticare karate. Chiaramente, l’obiettivo non è solo l’autodifesa e il sapersi difendere fisicamente, ma anche quello di far crescere in loro l’autostima, perché vivono in un contesto in cui l’intorno fa loro credere di essere persone svantaggiate, che avrebbero meno diritto di vivere rispettono agli altri.
Inoltre, a causa dell’albinismo, i ragazzi non ci vedono e la luce del sole li danneggia tantissimo. Di conseguenza, non vedendo bene, nemmeno possono frequentare la scuola.
Per questo vogliono creare la scuola di karate, attraverso la quale possano riuscire ad affermarsi come persone, a contare nella società e, se anche noi creiamo un “sistema” attorno a questo obiettivo, potremmo fare la differenza. 

Quindi, la trama del film si baserà su questa storia?
Sì, è la storia di Jerome e di Mammoud, dei figli e dei nipoti albini. Jerome cerca di aiutarli insegnando loro il karate in modo che possano crescere in maniera più consapevole e più strutturata.
In Tanzania lui è un personaggio famoso, i tornei che organizza vanno in diretta TV nazionale ed è sua intenzione trasformare questi ragazzi in un simbolo. Se riescono a qualificarsi – tra l’altro, la federazione giapponese sarebbe contenta di averli alla prossima “Gichin Funakoshi Cup” a Tokyo – avrebbe un grandissimo impatto sulla comunità locale, perché vedrebbero che anche gli albini sono capaci di fare grandi cose.
L’anteprima del film andato in onda su RAI 3, racconta questa fase dell’iniziazione di Zungu al karate e di quando, col fratello, si sono presentati a una gara. Purtroppo però non possono accedere alla gara di kumite a causa di molte ed evidenti ferite cutanee, il problema di fondo è infatti quello che non hanno la possibilità economica per comprare delle creme solari per proteggere la loro fragilissima pelle.
Da qui partirà il prossimo passaggio del film, in cui si concentrano sul procurare le creme per evitare di arrivare già feriti alle gare. Un passaggio importante per l’obiettivo di Zungu, che desidera tanto esibirsi sui tatami dei grandi maestri giapponesi.
Zungu ha sedici anni. MuZungu era una parola per indicare i britannici (ossia gli anglofoni e, in buona sostanza, i “bianchi”). Corrisponderebbe all’uso che si fa in occidente del termine “negro”, loro la usano per indicare i bianchi camminando per strada. Come noi ci riferiamo ai neri in modo dispregiativo, i neri si riferiscono ai bianchi con questo termine e il ragazzo se lo tiene come soprannome.

Quali impressioni hai avuto di Jerome?
Questa è la mia interpretazione: Jerome sembra irreale, un personaggio dei supereroi. Le persone che parlano come lui le vedevo nei film di cui ti dicevo: parla come se fosse investito di un potere che vuole trasmettere in qualche modo. Non viene da una famiglia poverissima, ma quando è morta la mamma, l’unica che lo appoggiava nella sua idea, il karate non era considerato uno sport su cui investire, perché in Tanzania è visto come un’arte violenta, quindi, non aveva neanche il supporto dalle istituzioni. Lui voleva promuoverla come un’arte nobile che aveva degli effetti positivi sulle persone. Jerome dice: “Saper usare la violenza, non significa che poi la devi adoperare. Io non la uso più da quando so quanta forza abbia un colpo. Quando sai quanta forza ha, devi anche saperla gestire. Il fallimento di ogni karateka è usare la violenza quando ti è inflitta”.
Lui non ha le nostre categorie mentali, lui si comporta come quelli che a noi vengono rappresentati attraverso i film.
Al di fuori del dojo è una bellissima persona, simpatica e amabile, ma quando indossa il karategi nel dojo sembra davvero un supereroe. Avviene come uno switch: cambia lo sguardo, come se qualcosa dietro agli occhi cambiasse.
Lui non è molto strutturato per le cose legate all’organizzazione di tutto, è sua moglie infatti che lo aiuta molto sotto quest’aspetto. La loro storia d’amore tra l’altro è pazzesca. Lui sostiene d’averla sognata prima ancora d’averla vista! 

Tu che idea ti sei fatto del karate?
Mi sono innamorato del karate. Credo che le arti marziali orientali siano di un livello che va “oltre”.
Si tratta di una disciplina che fa venir fuori delle energie che hai solamente a patto di ricambiarle attraverso una serie di pratiche. Approcciando il karate in un continente come l’Africa, io lo vedo come un rituale magico.

Questa è la mia interpretazione: Jerome sembra irreale, un personaggio dei supereroi.— Luigi Maria Perotti

Il film che abbiamo visto è solo l’inizio, come proseguirà? Hai altri progetti?
Quello che è andato in onda sono riprese che ho girato per fare dei sopralluoghi, in realtà non avevo una troupe. Sono stato in posti in cui non credo tanti occidentali abbiano avuto l’opportunità di mettere piede.
Questa è stato il mio primo docufilm in Africa, precedentemente avevo fatto qualche reportage, ma cose giornalistiche, non le citerei come progetti ufficiali.
I miei progetti futuri sarebbero quelli di continuare a girare e di raccontare questa storia nel miglior modo possibile, di quando Zungu andrà in Giappone, concludendo con il proverbio giapponese “sette volte cadi e otto volte ti rialzi”.
Dopo la fine di questo progetto ci sono certe cose che mi stanno spingendo a continuare con questa storia, quindi, stiamo lavorando a un seguito. 

Però, l’idea fondamentale di questo progetto è quella di sensibilizzare internazionalmente le associazioni e/o le federazioni di karate di tutti i livelli, perché supportino e aiutino la creazione di questo centro. 

Questi i RIFERIMENTI per contattare Jerome e per supportarlo:
Emailfacebook

Guarda la video-intervista a Jerome Sensei.

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