La mia filosofia è quella seguire la via della flessibilità per raggiungere l’armonia e il mio motto: “Io non ho problemi, ho situazioni”.
Ci racconta com’è nata la sua passione per il karate?
Il motivo per cui mi sono dedicato al karate è probabilmente comune a molte persone che sono nate verso l‘inizio della seconda metà del secolo scorso come me: legittima difesa. Io sono di statura piccola e, quindi, essendo “preda facile”, già da ragazzino sono stato vittima di aggressioni spesso immotivate, che servivano a saziare l’ego di ragazzi più grandi e forti di me. Avevo poco meno di sedici anni quando decisi di porre fine a questo stato di fatto che ritenevo ingiusto.
Era il 1974 quando pensai d’iniziare a praticare il karate. Nella cittadina in cui sono nato, Eboli in provincia di Salerno, aveva iniziato a prendere piede quest‘arte marziale affascinante proveniente dal Giappone, con la quale persone non dotate di grandi doti fisiche potevano sconfiggere aggressori più grandi e forti, anche con facilità.
Il karate era arrivato in Italia già da diversi anni, grazie a due maestri giapponesi: il Maestro Hiroshi Shirai a Milano per lo Shotokan e il Maestro Iwao Yoshioka a Roma per il Wado ryu. Il mio primo approccio con il karate è stato con quest’ultimo ed è avvenuto tramite i libri del Maestro Augusto Basile sui kata di base del suo stile, i Pinan. Ho praticato per due anni questo stile per poi passare allo Shotokan, che già allora era quello maggiormente diffuso.
Subito dopo i primi contatti con il karate, disciplina che avrebbe dovuto servirmi a difendermi, è nato in me un fascino particolare dovuto alla precisione dei movimenti, all‘evidente efficacia delle tecniche e sicuramente anche a motivi di natura “esotica”. Per fortuna, come difesa personale l’ho dovuto poi applicare soltanto pochissime volte.
Ancora oggi seguo tutte le volte che posso e con attenzione gli insegnamenti del M° Carlo Fugazza.
Quali sono stati i suoi primi maestri e che cosa ricorda del loro insegnamento?
Il mio primo insegnante di karate è stato il Maestro Silvano Baldi (allievo del Maestro Beppe Panada, del Sankaku di Napoli), allora bravissimo combattente a livello europeo e componente della nazionale italiana della FIK. Per un certo periodo si è letto molto sui suoi innumerevoli successi in gara, ottenuti in diverse città europee, sull’allora rivista specializzata di karate più diffusa: Samurai. Il suo insegnamento era duro, come di consueto in quegli anni. È stata per me un‘esperienza importante per conoscere me stesso, i miei limiti e le mie capacità.
Sucessivamente ho seguito altri insegnanti, meno conosciuti, e tutti per periodi piuttosto brevi. Ognuno di loro ha arricchito il mio bagaglio tecnico e, in parte, il mio atteggiamento mentale.
Dopo moltissimi anni di pratica (ero 4° dan) ho rincontrato il Maestro Luciano Parisi (negli anni Settanta compagno di squadra del Maestro Carlo Fugazza e di altri atleti della FESIKA), che mi aveva affascinato in un raduno tecnico al quale avevo partecipato quando ero cintura marrone. Dopo il secondo incontro con il maestro e i successivi, avendo una conoscenza più approfondita del karate, sono riuscito ad assimilare di più dal suo insegnamento sia a livelo fisico sia mentale, cosa che non sarei stato in grado di apprezzare un paio di decenni prima. Mi ha formato moltissimo come persona, anche se ho incontrato il M° Parisi soltanto poche volte.
Io non smetterò mai di imparare. Per questo motivo ancora oggi seguo tutte le volte che posso e con attenzione gli insegnamenti del M° Carlo Fugazza (che stimo molto), il quale offre diversi raduni tecnici anche in Germania, spesso non lontano dalla zona in cui vivo.
Quali sono oggi i Maestri a cui fa riferimento e Lei come si tiene in allenamento?
Oltre ai miei riferimenti recenti, i Maestri Parisi e Fugazza, anche in Germania ci sono delle personalità particolari che seguo ai raduni tecnici che tengono. Seguo soprattutto, ma non solo, i Maestri Karamitsos (direttore tecnico della nazionale di kata) e Milner. Entrambi sono stati più volte campioni d‘Europa nella specialità kata.
Individualmente, da moltissimi anni mi alleno tutte le mattine prima di andare al lavoro per la durata di venti minuti (da più di un anno anche il fine settimana), oltre a praticare la meditazione zen, per altri venti minuti. Inoltre, tengo cinque corsi settimanali in due giorni. Due di questi corsi vanno dalla cintura marrone al 5° dan. Alcune delle cinture più alte sono miei amici di vecchia data e karateka esperti che non hanno bisogno di grandi correzioni, per cui riesco ad allenarmi per buona parte delle lezioni.
Infine, ho un Danshakai domenicale con ritmo mensile, al quale si può partecipare a partire dalla cintura nera, a cui spesso prendono parte anche karateka esterni. Questi allenamenti si svolgono nel dojo, il Taikikan “Scuola del corpo e dell‘energia interiore”, che ho fondato con un mio amico (5° dan) nel maggio del 2001. Per concludere, vengo invitato regolarmente a dirigere raduni tecnici in tutta la Germania.
Ci può raccontare qualcosa della sua esperienza agonistica?
L’esperienza agonistica ha avuto per me una grande importanza, mi ha formato molto nel carattere. Ho partecipato a gare di kata e kumite, singole e a squadre, le più interessanti sono state i combattimenti a squadre.
Essendo di corporatura piccola ho avuto soltanto avversari “grandi” e a volte molto più grandi di me (i tedeschi sono mediamente più alti degli italiani…). Ho attraversato diverse esperienze: dal perdere perché ho avuto troppo rispetto dell‘avversario di grande stazza, al vincere perché lo stesso mi ha sottovalutato, vedendo la differenza delle dimensioni e non considerando altri fattori come la velocità e la scelta di tempo. Gli insegnamenti migliori li ho ricevuti ogni volta che ho perso, perché mi sono chiesto cosa avessi sbagliato. Trovata la risposta ho quindi lavorato sulle mie carenze per migliorarle.
La mia esperienza più interessante l’ho avuta una volta che ho combattuto, in squadra, contro un avversario alto 2,02 metri (circa 40 centimetri più di me), era anche culturista e lavorava come buttafuori per una discoteca. Conosco con esattezza questi particolari, perché ci siamo allenati nella stessa palestra per diversi anni, da cui poi lui si allontanò, insieme a un gruppo che iniziò a vederci come avversari (e non come compagni d‘allenamento di vecchia data). La cosa interessante è che lui, nell‘episodio che sto per raccontare, non aveva affatto intenzione di vincere, bensì di picchiarmi, di mandarmi all‘ospedale, cosa della quale, quel giorno, si resero conto tutti i presenti nel palazzetto (ad un certo punto si fermò tutto, anche gli altri combattimenti, e gli occhi erano puntati sul nostro tatami). Qualcuno disse: “Davide contro Golia!”.
Io ero a priori a conoscenza delle intenzioni del mio avversario, ma sapevo anche di essere il più veloce dei due e avevo fiducia nelle mie capacità. Beh, lo colpii più volte di gyaku zuki, mentre, inclinando il busto, spostavo la testa di lato. Quando arrivava una sua tecnica di braccia, mentre io contrattaccavo, il suo gomito era all’altezza della mia testa, se mi avesse colpito ne avrei evidentemente subito notevoli danni. Ad un certo punto l‘arbitro venne da me e mi disse: “Se continui così non posso darti punti, perché la tua tecnica non è abbastanza pulita”. Pensai (dato che in gara il combattente non parla): “Tu tieniti pure i tuoi punti, io mi tengo la mia testa!“. Quell’incontro, che poi persi perché il mio avversario è riuscito a ottenere un waza ari, ma senza ferirmi, in zona è passato alla storia.
Il fine che mi ero posto per la mia fase agonistica è un po‘ insolito, in quanto non ho mai dato importanza a medaglie e coppe. Volevo attingere a esperienze che un giorno (arrivato ormai da tempo) mi avrebbero permesso di insegnare il karate senza teorie irreali, bensì tramite impulsi da trasmettere basati sull‘esperienza diretta, quindi, veramente applicabili.
La mia esperienza più interessante l’ho avuta una volta che ho combattuto, in squadra, contro un avversario alto 2,02 metri.
Nella sua formazione personale vi sono altre esperienze che ritiene abbiano arricchito il suo “bagaglio marziale”?
Principalmente leggo molto, anche su altre arti marziali non solo giapponesi, e pratico lo Zen. Per cui il mio approccio non è soltanto fisico e questo lo ritengo importante per capire a fondo il vero insegnamento (quindi la Via) di un‘arte marziale.
Nel mio karate ci sono senz’altro concetti dell‘aikido. Ho praticato il jujutsu, poi per due anni il taijiquan; un mio amico judoka mi ha insegnato le tecniche di caduta; ho conseguito il 3° kyu nello iaido e ho avuto diversi approcci con il wing chun. Ho offerto anche dei corsi di difesa personale insieme a un esperto di taeqwondo, il nostro intenso scambio ha arricchito entrambi.
Tutte queste esperienze hanno ampliato il mio orizzonte e incrementato il mio Shotokan, che sarà sempre la mia base e la mia disciplina.
Lei è un insegnante di karate, quali qualifiche ha conseguito?
Nel 2014 ho superato l’esame a 6° dan nella federazione tedesca di karate (DKV, Deutscher Karate Verband). Nello stesso anno, nella città di Brema, nell’ambito del campionato mondiale di allora, è stato organizzato il raduno tecnico più grande nella storia dei mondiali di karate, con 83 insegnanti e oltre 1.500 partecipanti, per tre giorni consecutivi.
Ogni giorno si effettuavano otto allenamenti paralleli per dieci volte nell’arco della giornata (ogni allenamento durava 45 minuti). Per offrire una buona qualità ai partecipanti il numero dei karateka era limitato a 30 per ogni corso. Gli allenamenti si effettuavano nel padiglione per fiere attiguo al palazzetto dello sport dove si sono tenuti i mondiali. Lì ho conseguito il titolo onorifico a vita di Milleniumstrainer.
Però, non sono maestro. Inoltre, per me questa definizione ha un grande valore e comporta molta responsabilità. Io ho la fortuna di insegnare perché ci sono persone che sono disposte a seguire le mie lezioni, ne sono riconoscente e ringrazio tutti per questa grande possibilità che mi si viene offerta. A volte mi si rivolgono a me con l’appellativo di maestro, o anche di sensei, e mi sono serviti degli anni per riuscire ad accettarlo, ma oggi non mi ribello più. Se però me lo si chiede direttamente, questa è la mia risposta.
Che cosa l’ha motivata a percorrere la strada dell’insegnamento e come si considera come insegnante?
L‘insegnamento è spesso uno sviluppo spontaneo. Vai avanti con l‘esperienza e sei il sempai, per cui sostituisci l‘insegnante che non ha tempo per una determinata lezione. Poi ti viene chiesto se sei disposto a insegnare in un corso e, alla fine, conduci quello che è diventato il tuo gruppo. A quel punto ti rendi conto che insegnando impari.
Gli allievi ponevano delle domande per le quali non avevo risposta e in quei casi io ho sempre detto: “Non lo so, m’informo e al prossimo allenamento ti do la risposta“. In quella fase si scopre il fascino della ricerca in funzione dell‘approfondimento. La motivazione finale è poi l’assaporare la gioia di colui che riceve e, quindi, il suo sviluppo. A questo punto hai preso il “virus” dell’insegnamento e non ti lascia più.
Nel mio dojo, dove insegno, mi considero come un orientamento: preferisco dare delle direttive. Esse, ritengo, dovrebbero essere seguite fino a un certo punto della pratica, dopodiché diventano consigli. In allenamento dico spesso: “A partire dal 3° dan personalizzate!“. Non voglio formare delle copie di me stesso, il mio scopo è di sostenere i karateka che seguono le mie lezioni in modo che ognuno sviluppi una propria personalità, fisica e mentale, che arricchiscono il karate.
I metodi di insegnamento attuali sono senz‘altro differenti rispetto a quelli dei primi anni di pratica in Europa e nel mondo. Si sono adattati alle società moderne e alle conoscenze della scienza e della medicina moderne. Va bene così. Se si offrisse un metodo d‘allenamento praticato trent’anni fa o più le palestre si svuoterebbero velocemente.
Quali sono i capisaldi del suo insegnamento e come riesce a motivare e a stimolare i giovani a seguirla?
La mia filosofia è: seguire la via della flessibilità per raggiungere l‘armonia. Da questa convinzione nasce il mio metodo d‘allenamento. Io rispetto la tradizione e guardo contemporaneamente verso l‘innovazione.
Parlando di allievi io non li definirei giovani o atleti, oggi il praticante è molto più vario nell’età e, più che in passato, poche persone sono anche atleti che gareggiano. Nel nostro dojo ci si allena dai sette fino a oltre i settanta anni, chiaramente divisi per età e grado.
La motivazione di base che mi impegno a trasmettere è la qualità di vita. Quindi, il rapporto tra mente e corpo, l‘insegnamento del dojo da riportare nella vita di tutti i giorni e nei rapporti con gli altri. Ciò è di sostegno a scuola, nella vita lavorativa, in famiglia e nel tempo libero.
Il rapporto che io personalmente creo con gli allievi è di parità: io do e ringrazio per la disponibilità ad accettare il mio insegnamento, l’allievo riceve ed è riconoscente per l‘insegnamento ricevuto. L‘atteggiamento di un insegnante deve essere, secondo il mio parere, sempre motivante, quindi lodante. Avere fiducia nelle capacità dell’allievo è il messaggio più importante che un insegnante possa trasmettere, questo dà i migliori risultati.
Chiaramente anche le critiche sono importanti. Va comunuque considerato che devono contenere sempre un messaggio positivo e costruttivo. Uno spiraglio verso un traguardo da raggiungere, a breve o a lunga distanza, deve essere presente nella critica.
Il mio scopo è di sostenere i karateka che seguono le mie lezioni in modo che ognuno sviluppi una propria personalità.
Lei risiede da molto in Germania, trova ci siano differenze tra il modo di praticare lì rispetto all’Italia? Frequenta altri dojo?
Le differenze spesso sono dettate a livello federale, molte di esse seguono una linea filosofica (fini sportivi, tradizionali, innovativi o altro). Altre differenze sono di carattere formale. Per esempio, come si va nei kata dal musubi dachi allo yoi, passaggi intermedi o anche differenze di tecniche finali (mikazuki geri al posto di hiza geri), nell‘esecuzioni di kata o anche di determinate tecniche.
Il tutto non ha una grande importanza, perché la Via è la stessa, anche se presenta variazioni. Un arbitro internazionale (7° dan) mi ha detto tempo fa: “Nel goju ryu ci sono molte più differenze nei kata che nello shotokan. La differenza è che i praticanti del goju ryu non se ne creano un problema, mentre noi praticanti dello shotokan ne facciamo un dramma.“
Sono stato chiamato a dirigere un raduno tecnico in Lussenburgo e ho avuto delle richieste dalla Svizzera. Per il resto sono in Germania, almeno fino a oggi.
Qual è la cosa più preziosa che il karate le ha insegnato e il più grande beneficio che il karate apporta oggi alla sua vita quotidiana?
Ho un‘agenzia pubblicitaria e la casa editrice tramite la quale pubblico i miei libri e altro. La mia attività in proprio è nata trentacinque anni fa e ho attraversato diverse crisi economiche, come tutti in Europa. Io racconto volentieri che non sono fallito economicamente, perché sono un bravo disegnatore grafico o un buon illustratore, bensì perché pratico il karate. Esso mi ha dato tutto: disciplina in primo luogo, ma anche determinazione e fiducia in me stesso. Sicuramente, tutti conoscono il detto orientale alla base del pensiero sulle arti marziali: “Cadi sette volte, rialzati otto.“ Questo atteggiamento mentale io l’ho acquisito grazie al karate. Inoltre, con il trascorrere degli anni ho imparato (grazie appunto al karate, ma anche alla meditazione) a distinguere sempre meglio le cose importanti da quelle che non lo sono. Mi rendo conto che in situazioni di stress reagisco con sempre maggiore calma. Il mio motto è: “Io non ho problemi, ho situazioni.” In tal modo già il primo impatto con qualcosa di spiacevole mi fa assumere un atteggiamento mentale rivolto alla soluzione.
Lei è diventato un personaggio famoso tra i praticanti, conciliando la sua attività di grafico con il karate, ce ne vuole parlare?
Sono dell‘opinione che ho avuto e ho molta fortuna nella mia attività professionale. Ovviamente, ho anche lavorato intensamente, nei periodi più intensi fino a 12 ore al giorno, più i fine settimana. Considerando ciò, ho anche aiutato la mia fortuna.
Un altro fattore determinante è la collaborazione con mio figlio Ennio che lavora con me da diversi anni ed è lui che si cura del marketing all’interno dell’attività della casa editrice, che comprende anche i canali online. Inoltre, mia figlia Valeria (anche lei ha studiato marketing) di tanto in tanto porta nuovi impulsi che poi realizziamo in tre. La comprensione di mia moglie Paola, che spesso non mi vede per via dei miei diversi impegni di karate (lavoro, allenamenti, raduni tecnici) è senz‘altro un elemento che mi permette di dedicarmi intensamente alla mia attività.
È stata proprio la combinazione di karateka e disegnatore grafico a rendere la mia professionalità un po’ particolare e che ha destato interesse nel mondo del karate. Il tutto poi con una buona dose di disciplina e continuità ha arrotondato il tutto.
Il mio primo libro I kata Shotokan fino a cintura nera, pubblicato in lingua italiana dalle Edizioni Mediterranee, ha visto la luce in lingua originale nell’ottobre del 2000, dove è stato presentato al Mondiale di Monaco di Baviera di quell’anno.
Per elaborare il libro all’interno della mia agenzia pubblicitaria di allora lavoravo fino a metà mattinata, dopodiché mi curavo dei lavori provenienti dall’industra fino a sera. Poi sono seguiti, fino a oggi, altri otto libri con un ritmo piuttosto continuo. Con il passare del tempo ho ridotto successivamente la mia attività di grafico pubblicitario per potermi dedicare con maggiore intensità all‘attività della casa editrice. Per questo motivo ai libri si sono aggiunti altri prodotti come una app per Apple e Android, diversi ebook in cinque lingue, calendari, manifesti di tecniche e dei kata heian, e altri prodotti ancora.
Che cosa auspica per il futuro del karate?
Oggi vedo il karate come una grande famiglia. Quando gareggiavo si incontravano gli avversari anche al di fuori del quadrato di gara. Poi, queste persone sono diventate piacevoli conoscenze con le quali si pratica il karate insieme e ci si scambia opinioni in qualità di colleghi, arricchendosi reciprocamente.
Il Maestro Kanazawa ha scritto nella sua autobiografia: “Prima le persone frequentavano il dojo per diventare forti fisicamente, oggi lo fanno per fortificare lo spirito”. Io la vedo esattamente allo stesso modo e interpreto questo sviluppo come un’evoluzione importante del karate.
Qui in Germania diverse casse malattie e università hanno effettuato degli studi e pubblicato innumerevoli articoli sul beneficio del karate come prevenzione e addirittura cura contro il Parkinson, il Bernout, le depressioni.
Quindi, per rispondere alla domanda, mi auspico che si continui su questa via intensificandola e portandola alla portata di un numero ancora maggiore di persone.
Avere fiducia nelle capacità dell’allievo è il messaggio più importante che un insegnante possa trasmettere.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Attualmente stiamo lavorando alla traduzione in inglese del mio ultimo libro L‘essenza del karate. L’inglese sarà la base per altre traduzioni, tra l’altro anche quella in italiano. Poi seguirà il mio penultimo libro pubblicato dedicato al karate per i bambini e infine la serie dei quattro volumi sui kata e sul bunkai. Un progetto per prodotti digitali è già avviato e crescerà continuamente con ulteriori prodotti che l’arricchiranno.
Abbiamo iniziato con disegni, ma continuerà con calendari, manifesti e altro. Il nostro lavoro è seguito un po’ dappertutto, per cui, per poter raggiungere in modo adeguato i karateka interessati, la via più veloce divulgazione è quella del digitale.