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Hoka Hey!

Ate Oyate kin tawa makiya ca. Yuha iyotin ye wakiye lo! Mio padre mi ha affidato questo Popolo. Sto cercando di fare onore al mio dovere! (Toro Seduto)

(in Karate Do n. 11 lug-ago-set 2008)

“Hoka Hey!”*
*Incitazione guerriera in lingua lakhota

Riprendo il nostro discorso sugli indiani d’America, rifacendomi a un avvenimento particolarmente significativo nella vita delle tribù delle grandi pianure e al quale ho avuto il privilegio di essere presente 5 anni fa, ospite della famiglia dei discendenti di Tatanka Iyotake (Sitting Bull), il grande capo Sioux Hunkpapa, conosciuto in Italia con il nome di Toro Seduto.
Attorno a questo leader carismatico dell’ultima resistenza indiana, famoso non solo per il suo valore guerriero, ma anche per la sua profonda spiritualità, si erano radunate nel 1876 le frange più irriducibili delle nazioni sioux e cheyenne settentrionali, unitamente a nuclei di guerrieri arapaho, wahpekute e yanktonai. Contro questa coalizione, sulla cui esatta consistenza numerica le opinioni degli storici sono ancora discordi, ma che a detta degli stessi discendenti indiani contava almeno seimila anime di cui circa un terzo composto da guerrieri, il governo americano organizzò una grande campagna militare. La manovra a tre punte aveva lo scopo di sottomettere i cosiddetti hostiles per confinarli nelle riserve dove già risiedevano i seguaci di Nuvola Rossa e Coda Chiazzata, i quali a loro volta, nel 1868, avevano sottoscritto, seppur a malincuore, lo storico trattato di Fort Laramie.
Trattato non riconosciuto da Toro Seduto, che si sottopose a una dolorosa danza del sole per invocare la protezione del Grande Spirito sul suo popolo. I suoi guerrieri, insieme a quelli guidati da Cavallo Pazzo, Due Lune, Gall, Inkpaduta e altri capi, nell’epica battaglia combattuta il 25 giugno 1876 lungo il fiume Little Bighorn e sulle colline circostanti, annientarono gli squadroni al seguito di Custer e costrinsero il resto del mitico 7˚ Cavalleggeri a trincerarsi sino all’arrivo della colonna di soccorso. Sul luogo dello scontro, oggi parco nazionale, alcuni anni dopo fu eretto un monumento a ricordo dei 250 uomini caduti con Custer: erano altri tempi e nessuno volle riconoscere che anche gli indiani avevano avuto i loro caduti.
Passeranno 129 anni prima che, nel corso della suggestiva cerimonia a cui accennavo sopra, tenutasi proprio il 25 giugno 2003, venisse dedicato un monumento anche ai guerrieri indiani che, come si legge nella motivazione, “combatterono e morirono difendendo le loro famiglie e il loro tradizionale modo di vita”. Un riconoscimento di portata storica, considerando che il luogo, già noto come Custer Battlefield e situato all’interno della riserva Crow (alleati questi degli americani e nemici acerrimi di sioux e cheyenne), per espressa legge federale era stato ribattezzato, nel 1991, Little Bighorn Battlefield, cancellando così il riferimento ufficiale al famoso generale. “Custer died for your sins”, aveva scritto provocatoriamente nel 1968 Vine Deloria Jr., uno dei leader del nuovo movimento indiano: “Custer era morto per i peccati dell’uomo bianco”.

Quando la si segue per molti anni, la “via” del karate, disciplina psicofisica, mentale ed etica, ci insegna non solo a rispettare il prossimo, ma anche a reagire e in quale misura (o finanche a non reagire), a seconda delle circostanze.

Sotto l’immenso cielo del Montana, attraversato da grosse nuvole che si rincorrevano come simbolici guerrieri sospinti dal vento della prateria, mi ritrovavo anch’io su quello storico campo di battaglia, insieme a centinaia di indiani, per partecipare ai loro riti tribali ed alle cerimonie ufficiali in onore dei loro caduti. Malgrado i discorsi di convenienza e il tema ufficiale di peace and unity, pace e unità, rimasi colpito dal profondo solco che ancora oggi separa i discendenti dei guerrieri sioux, cheyenne e arapaho da un lato, e il governo americano e i discendenti degli scout crow e arikara, che affiancarono Custer, dall’altro.
Ancora una volta, la mia esperienza di karateka mi fornì un’inusuale, ma ritengo valida, chiave di lettura all’episodio della battaglia e alla complessa realtà dello spirito guerriero degli indiani d’America. Parafrasando uno dei principî fondamentali enunciati dal M° Funakoshi, karate ni sente nashi (nel karate non si attacca per primi), l’episodio del Little Bighorn si rivela emblematico del lungo e violento confronto-scontro tra uomini bianchi e pellerossa. Possiamo affermare che, nella stragrande maggioranza dei casi, le tribù furono costrette a combattere guerre difensive di fronte all’inesorabile incalzare della frontiera. Paradossalmente, il diritto naturale dei pellerossa all’autodifesa, fu tacciato di crudeltà e barbarie dall’uomo bianco, il vero “invasore”, laddove invece, al Little Bighorn, come altrove, i guerrieri indiani si batterono proprio in difesa delle loro famiglie e per la sopravvivenza stessa dell’intera tribù.
Sul “fiume dell’erba grassa”, i guerrieri si scagliarono con rabbia e determinazione contro gli uomini di Custer appunto perché, ancora una volta, le giubbe blu avevano portato la guerra nei loro villaggi pieni di donne, vecchi e bambini. Già alcuni anni prima lo stesso Custer aveva attaccato vigliaccamente un pacifico accampamento cheyenne sul fiume Washita, massacrando donne e bambini. E al Little Bighorn, nelle prime fasi della battaglia, il famoso capo Gall, uno dei luogotenti di Toro Seduto, aveva visto le sue due mogli e i suoi tre figli cadere sotto il fuoco nemico. Ma questa volta i guerrieri sioux e cheyenne si erano ripresi subito dalla sorpresa iniziale, punendo “Capelli Lunghi” per la sua proverbiale spavalderia e vigliaccheria. Si narra che le donne cheyenne infilarono i loro punteruoli nelle orecchie del cadavere di Custer, perchè il biondo generale era stato “sordo” al loro avvertimento di lasciare in pace il popolo indiano.

Arroganza, spavalderia, bullismo, prevaricazione, vigliaccheria (ma aggiungerei anche egoismo e cupidigia), aspetti caratteriali negativi purtroppo ricorrenti anche nella nostra stessa realtà quotidiana, dove spesso sfociano in comportamenti violenti (contro i più deboli, persone e animali) che turbano e inquinano la fibra sociale. É anche contro simili deviazioni del carattere che il karate tradizionale si propone come maestro di vita, insegnando a moderare gli impulsi aggressivi e a praticare, attraverso lo spirito del budo, la via della rettitudine, della lealtà e della giustizia intesa in senso etico e morale: allenare il corpo, la mente, lo spirito per migliorare il proprio carattere, per “diventare persone migliori”, come si augurava il Maestro Funakoshi. Anche per saper distinguere tra difesa legittima e applicazione (reale) delle tecniche acquisite attraverso la dura pratica nel dojo, evitando l’esibizionismo della violenza gratuita, fine a se stessa. Quando la si segue per molti anni, la “via” del karate, disciplina psicofisica, mentale ed etica, ci insegna non solo a rispettare il prossimo, ma anche a reagire e in quale misura (o finanche a non reagire), a seconda delle circostanze. Come dice una massima del karate tradizionale: non è tanto importante vincere, quanto non perdere.

Il gioco del lacrosse era noto anche come il “fratello minore della guerra”.

Rileggendo in questa chiave la storia delle guerre indiane, già una settimana prima del Little Bighorn, sul fiume Rosebud, i guerrieri di Cavallo Pazzo erano andati incontro alla colonna del generale Crook, costringendolo alla ritirata. Piuttosto che cercare la vittoria a tutti i costi, gli alleati sioux e cheyenne si erano limitati a “non perdere” lo scontro. Costrinsero il nemico a ripiegare, senza però incalzarlo oltre, onde non rischiare inutili perdite e soprattutto la sicurezza stessa del villaggio, rimasto praticamente incustodito.
Nella gerarchia guerriera, i capi dovevano dimostrare oltre che coraggio indomito, anche fermezza e saggezza nel non esporre inutilmente al pericolo i propri guerrieri e ciò sottolinea anche il carattere difensivo delle guerre indiane, almeno nei confronti dei bianchi. Le guerre intertribali erano altra cosa, difficile da riassumere in questa sede. Esse comunque si basavano, solitamente, più sulla razzia e la rappresaglia, che non sullo scontro frontale di massa tra etnie nemiche.
Presso le tribù che risiedevano a est del fiume Mississippi, era poi molto diffusa una pratica ludica, ribattezzata dai bianchi con il nome di lacrosse. Non di rado questo sport era utilizzato da tribù nemiche per risolvere contenziosi in maniera meno cruenta. I guerrieri si fronteggiavano impugnando una o due racchette con le quali dovevano cercare di afferrare una palla da portare alla meta degli avversari. Alla partita, un vero e proprio scontro che poteva durare anche diversi giorni, partecipavano decine e finanche centinaia di giocatori-guerrieri. Le ferite anche gravi, pur non mancando, non erano certo paragonabili e quelle inflitte dalle armi da guerra. Per questo motivo il gioco del lacrosse era noto anche come il “fratello minore della guerra”.

Quando si parla di karate è importante distinguere tra la visione tradizionale e quella invece cosiddetta “moderna” o “sportiva” di questa difficile e affascinante arte marziale. Analogamente, trattando dello spirito guerriero nativo-americano non bisogna generalizzare troppo tra le diverse tribù e le loro tradizioni marziali.
Gli irochesi delle foreste orientali sono passati alla storia per la ferocia con cui condussero una vera e propria guerra di sterminio nei confronti degli uroni; guerra peraltro innescata dai bianchi per il controllo del commercio delle pelli di castoro.
Nello scontro diretto con l’uomo bianco fanno testo invece i guerrieri seminole i quali, agli inizi del 1800, combatterono una serie di guerre difensive nelle paludi della Florida, conclusesi senza che gli stessi fossero mai definitivamente sconfitti dagli americani.
Meno efficaci, a causa anche della forte frammentazione etno-linguistica, si dimostrarono i guerrieri delle piccole etnie della California nel fronteggiare la campagna di genocidio sferrata contro di loro dai cercatori d’oro, con risultati tristemente noti. Bisogna infine valutare con cautela l’ideale del noble warrior di un “Balla coi Lupi” o dell’“Ultimo dei Moicani” (quest’ultima un’erronea traduzione dell’etimo Mohegan, riferentesi all’omonima etnia algonchina e non agli irochesi Mohawk, moicani in italiano), ideale che in un capovolgimento dei vecchi schemi cinematografici (alla John Ford) ha da tempo rimpiazzato lo stereotipo dell’indiano sanguinario assaltatore di diligenze. É pur vero che, storicamente, almeno per quel che riguarda le grandi pianure, la maggior mobilità, resa possibile dall’acquisizione del cavallo, contribuì a mettere in risalto anche l’aspetto più ritualistico dell’identità e della pratica guerriera. A tal punto che counting coup, il contare colpo sull’avversario semplicemente toccandolo o colpendolo senza provocarne la morte, era considerato un atto più valoroso dell’uccisione dello stesso nemico.

Facendo riferimento sempre al karate tradizionale possiamo riconoscere un concetto analogo nel nostro kumite, dove è la corretta tecnica portata con velocità, potenza e controllo a determinare il vincitore. Come il guerriero non indugiava di fronte al nemico, in uno scontro potenzialmente mortale, ma si limitava invece a “ucciderlo” simbolicamente contando colpo su di lui, così il karateka tradizionale dimostra il suo spirito di budo (unitamente ad abilità, tempismo, preparazione tecnica e psicofisica) facendo ippon sull’avversario. In entrambi i casi il valore simbolico del gesto è analogo.
Confrontarsi con il nemico o, nel caso di quanti oggi praticano il karate tradizionale, con l’avversario nel kumite, anzi, la stessa pratica del karate nel suo insieme, vuol dire innanzi tutto confrontarsi, cimentarsi, con se stessi, con le proprie paure e debolezze, per imparare a controllarle ed, eventualmente, superarle.

Personalmente, ho riscontrato significative analogie anche a livello “epidermico” tra l’esperienza e le sensazioni provate nel sweat lodge e quelle di molti allenamenti di karate tradizionale.

Da aggiungere anche che, se da un lato la pratica guerriera era tradizionalmente prerogativa maschile, non pochi sono gli episodi storici di donne indiane che diedero prova di eccezionale coraggio e abilità guerriera sul campo di battaglia; molti ricordano la giovane cheyenne la quale, durante lo scontro del Rosebud menzionato sopra, si lanciò nel mezzo della mischia per portare in salvo il fratello ferito. Queste women warrior erano molto rispettate anche in culture maschiliste come quelle delle grandi pianure. Venendo a noi, ritengo di non essere il solo karateka ad aver troppo ingenuamente, almeno una volta, sottovalutato una mia compagna di palestra ed essere stato costretto ben presto a ricredermi da un suo gyakuzuki o maegeri ben piazzati al malcapitato.

Ho avuto modo di sottolineare nelle puntate precedenti che la pratica del karate mi ha aiutato molto nel corso delle mie esperienze in Indian Country. Una cerimonia alla quale si sottoponevano i guerrieri prima e dopo la battaglia, ancor oggi assai diffusa presso gli indiani, è il cosiddetto sweat lodge, la capanna sudatoria o di vapore, alla quale ho avuto occasione di partecipare. Per quanti soffrono, come chi scrive, di claustrofobia, l’esperienza può rivelarsi a dir poco difficile, se non addirittura traumatica, al di là della mera resistenza fisica messa a dura prova.
Sulla cerimonia esiste una vasta letteratura che ne descrive le fasi nelle varianti tribali. Qui mi preme ricordare che, rinchiuso insieme ad altri indiani e al medicine man officiante nel buio più completo della piccola capanna conica, resa caldissima e satura del vapore asfissiante prodotto dall’acqua cosparsa su delle pietre sacre roventi, fu proprio grazie allo “spirito” del karate che riuscii a controllare la mia paura e a completare l’intera cerimonia. Il rito, che dura circa un’ora, purifica il corpo e la mente, affratella i partecipanti nel dolore provocato dal vapore bollente, li accomuna nelle preghiere, fortifica lo spirito e tempra il carattere. La cerimonia si conclude con un bagno rigenerante nelle acque fredde di un fiume e quindi con un banchetto di ringraziamento.
Personalmente, ho riscontrato significative analogie anche a livello “epidermico” tra l’esperienza e le sensazioni provate nel sweat lodge e quelle di molti allenamenti di karate tradizionale. Mi riferisco alla concentrazione, alla gestualità, e al momento in cui, sotto il peso della fatica fisica e mentale, non facendocela più si è pronti a gettare la spugna. Si riesce invece quasi sempre ad andare avanti e a resistere ancora un po’. Il senso di pace e la serenità interiori che, seppur nella diversità delle due esperienze, conseguono a entrambe, non possono essere descritti adeguatamente a parole, devono essere vissuti in prima persona per poterli apprezzare e comprendere a pieno.

Oss.

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