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Shu-ha-ri: teoria e pratica di un rapporto complesso

Shu-ha-ri: teoria e pratica di un rapporto complesso

La relazione tra insegnante e allievo, e il conflitto fra tradizione e innovazione.

LA TEORIA (1)
Chi tra noi non si è mai visto piantare in asso da un allievo, spesso proprio quello di cui era particolarmente orgoglioso? E chi non si è sentito un po’ tradito dalla sua decisione di cambiare palestra? Questo articolo è dedicato proprio all’argomento della relazione tra insegnante e allievo e del conflitto fra tradizione (che legittimamente aspira alla conservazione del patrimonio teorico, tecnico e morale che ci è stato tramandato) e innovazione, innegabile molla del progresso in tutte le arti e, quindi, anche nelle Arti Marziali.
Quanto tempo può o deve durare l’apprendistato di un praticante di karate? In quale momento può considerarsi concluso il processo di formazione (salvo poi ritornare dall’insegnante per gli indispensabili aggiornamenti) e aprire una propria scuola? È consentito innovare o ci si deve accontentare di tramandare fedelmente ai propri allievi gli insegnamenti ricevuti? E soprattutto: chi decide al riguardo? Noi o qualcun altro (il nostro istruttore,la federazione di appartenenza)?

In quale momento può considerarsi concluso il processo di formazione e aprire una propria scuola?

Sono domande importantissime, che però hanno un senso solo per i marzialisti (preferisco questa dizione a quella di “tradizionalisti”): nel karate sportivo, come in tutte le altre discipline agonistiche, si preferisce parlare di allenatori, e si giudica normale e fisiologico che il periodo di addestramento abbia una sua conclusione e che la pratica sportiva si evolva: nello sci nessuno usa più la tecnica del telemark e nel salto in alto nessuno, neppure nella scuola media, si sognerebbe più di insegnare il salto all’italiana o la sforbiciata.
Noi karateka invece siamo conservatori (nel senso positivo del termine): da più di mezzo secolo riproduciamo fedelmente i 26 kata codificati da Nakayama (con impercettibili differenze tra una scuola e all’altra) e siamo orgogliosi di proclamarci allievi a vita del nostro maestro, del maestro del nostro maestro o del fondatore del nostro stile. 

Da noi l’accento cade solitamente sulla fedeltà alla scuola e il praticante, ormai diventato un esperto, (magari un quarto, quinto o sesto dan) che si distacca dal proprio insegnante viene spesso giudicato un “traditore”, una specie di ronin che ha tradito la fiducia del suo “signore”. La separazione è resa ancora più brusca e traumatica dai sensi di colpa di chi se ne va e dal rancore di chi viene lasciato.
Se reagiamo così è perché quel senso ingiustificato di proprietà dei nostri allievi (e di gelosia nei loro confronti) ci è stato trasmesso da chi ci ha preceduti sulla strada dell’insegnamento: uno dei miei insegnanti proibiva tassativamente ai suoi “adepti” di allenarsi con chiunque altro, compreso il proprio Sensei. Solo quando ha definitivamente abbandonato insegnamento e pratica li ha affrancati (bontà sua) da questa sorta di servaggio (vedi il riferimento a Hegel nel prosieguo dell’articolo) che ogni organizzazione implicitamente suffraga, richiedendo il nulla osta a chi vuole cambiare palestra.

Tuttavia anche nel karate marziale, e più in generale nelle arti marziali tradizionali, è prevista un’evoluzione del rapporto maestro-allievo, un processo di graduale emancipazione, che viene compendiato nell’espressione giapponese shu-ha-ri. Si discute sui tempi dell’emancipazione (recentemente ho letto che ciascuna fase richiederebbe vent’anni,cosa che farebbe coincidere la maturità dell’allievo con la sua vecchiaia!), ma non sulla sua ineluttabilità. Se ne discute a lungo, senza peraltro arrivare a una soluzione condivisa.
Va detto subito che l’espressione citata non ha una traduzione univoca, soprattutto per quel che riguarda il significato del terzo e ultimo kanji, e si presta quindi a interpretazioni diverse, se non addirittura contraddittorie.
Per quanto mi riguarda ho utilizzato The Kanji Dictionary di Spahn e Hadamitzky.

È consentito innovare o ci si deve accontentare di tramandare fedelmente…?

Shu ha sicuramente a che fare con la protezione che il maestro accorda all’allievo nella prima fase dell’apprendimento e con l’obbedienza che il discepolo gli accorda; Ha indica l’insorgere di una “divergenza” o “rottura”, cioè di un’interpretazione personale dell’allievo, diversa e alternativa rispetto a quella appresa; Ri dovrebbe rappresentare infine la separazione dell’allievo dal maestro, non tanto in termini di “rottura”, ma (ci si dovrebbe augurare) con la stessa naturalezza con la quale spicca il volo l’uccello che ha appreso a volare e i figli si rendono indipendenti dalla famiglia d’origine.

I sostenitori dell’indissolubilità del rapporto maestro-allievo preferiscono interpretare invece Ri come “trascendenza”, una fase superiore di superamento del conflitto, riconciliazione e continuazione del rapporto su basi nuove, hegelianamente parlando, il momento della sintesi dopo quelli della tesi e dell’antitesi. In ogni caso, comunque si interpreti Ri, si dà per scontato che l’allievo abbia a quel punto superato la fase dell’apprendistato e non sia più una “tabula rasa” o una spugna disposta ad assorbire concetti e nozioni in modo acritico.
Nei fatti la storia del karate giapponese, europeo e anche di casa nostra, è una storia di separazioni e rotture traumatiche, a tal punto che la lista delle “federazioni” esistenti assomiglia a una versione “marziale” delle Pagine Gialle. Alcune di queste scissioni nascono per ragioni economiche o insanabili divergenze tecniche, ma il più delle volte sono provocate da conflitti di personalità nei quali i clan dei due rivali seguono fedelmente il loro capo. Molto shu, pochissimo ha e niente ri.

LA TEORIA (2)
Non a caso si è fatto il nome di Hegel. Nella filosofia occidentale esiste infatti un curioso parallelo col rapporto maestro-allievo nella dialettica servo-signore (Fenomenologia dello Spirito). Si parla di dialettica perché i due termini opposti, servo e signore, non restano del tutto separati e incomunicabili, ma si modificano a vicenda, interagendo sia pure in modo conflittuale. Secondo Hegel, nel corso della storia il signore, rischiando la propria vita pur di affermare la propria indipendenza, ha raggiunto il suo scopo e si eleva su quello che è divenuto il suo servo (che ha preferito la perdita della propria indipendenza pur di aver salva la vita). Anche il servo però diventa importante per il signore, poiché dal lavoro di quello dipende il suo stesso mantenimento in vita. Il servo, lavorando, dà al padrone ciò di cui ha bisogno. Il padrone non riesce più a fare a meno del servo. Dunque la subordinazione si rovescia. Il padrone diviene servo, poiché è strettamente legato al lavoro del servo, e il servo diviene padrone (con la sua attività produttiva) del padrone.
Secondo Marx, un “allievo emancipato” di Hegel, la liberazione del servo non può avvenire nel campo dello spirito, ma solo nella prassi, attraverso il superamento della servitù con la lotta di classe e la proprietà collettiva dei mezzi di produzione.

Un processo di graduale emancipazione che viene compendiato nell’espressione giapponese shu-ha-ri.

LA PRATICA
Tornando più concretamente sul tatami, secondo il modesto parere di chi scrive, non tutti gli allievi sono destinati a diventare dei maestri. Molti di loro possono diventare degli istruttori, anzi, degli ottimi insegnanti, senza per questo acquisire la maestria di chi li ha preceduti nella Via. Si può discutere se Funakoshi sia stato un maestro più grande di Itosu o semplicemente un più abile divulgatore, o se Nakayama abbia superato Funakoshi in maestria o abbia semplicemente trasformato il karate in qualcosa di essenzialmente diverso rispetto all’arte praticata a Okinawa. Quello che invece è certo è che migliaia di cinture nere, formate e promosse nei dojo di tutto il mondo, non hanno né la possibilità né la volontà di dedicare la vita al karate. La pratica sarà per loro un sano passatempo, uno strumento di difesa personale, un mezzo per primeggiare nelle competizioni o perfino uno stile di vita.
Nessuno di loro (e questo vale in primis per chi scrive) si eleverà mai all’altezza del maestro Fugazza o del maestro Brennan, per non nominare Enoeda, Shirai, Nishiyama, Nakayama, Kase. La loro (e la mia) massima aspirazione sarà continuare più a lungo possibile la pratica sotto la guida tecnica e spirituale che si sono scelti e, qualora essa venga a mancare, cercare il sostituto più degno possibile. Con questo, non si vogliono muovere critiche od obiezioni a chi ritiene di essere in grado ormai di diventare il maestro di se stesso seguendo le parole di Dante: “Messo t’ho innanzi, omai per te ti ciba”. Sarà la comunità marziale a decidere se si tratta di auto-realizzazione (il “servo” che diventa “signore”) o di banale presunzione.

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