Bruce Lee in “Enter the Dragon” è l’archetipo dell’artista marziale mai eguagliato per la complessità delle conseguenze delle sue interpretazioni.
C’è un film, del quale recentemente si parla molto – per le rivelazioni di Jackie Chan su quanto avvenuto sul set e perché ultimamente viene considerato l’atto quasi ufficiale di nascita delle MMA [Mixed Martial Arts ndr] – e che segna l’ingresso nell’immaginario collettivo della figura dell’artista marziale orientale: l’interpretazione di Bruce Lee nel film del 1973 Enter the Dragon, in italiano reso con I tre dell’operazione Drago.
Prima di tutto, perché per la prima volta il protagonista è un attore cinese e Lee stesso, peraltro, era già stato co-protagonista di due serie per il piccolo schermo andate in onda nel ’66. Poi, per la rivoluzione che lo stesso Lee operò nelle arti marziali e nelle loro modalità di ripresa cine-televisive, specie nei tre anni prima della sua morte.
Inoltre, perché le prime co-produzioni USA-Hong Kong vedono la luce con lui, nato negli Stati Uniti, ma cresciuto nella ex colonia britannica. Ancora, perché il kung fu viene calato da Bruce Lee nei paradigmi della cultura western, per renderlo più semplice e accattivante al pubblico americano e agli appassionati del genere.
Non solo, grazie al kung fu scatta immediato in Occidente l’interesse per buddhismo, taoismo, confucianesimo…
Riesce a coniugare la multidisciplinare nelle arti marziali con gli ideali di egualitarismo che verranno risuscitati dal ’68.
Bruce, addirittura, riesce a coniugare la multidisciplinare nelle arti marziali con gli ideali di egualitarismo che verranno risuscitati dal ’68. Non trascuriamo la grande importanza assunta dalle coreografie presenti nei film di Lee, proprio come nei film animati dei grandi studi, Disney su tutti.
Naturalmente, c’è l’impatto a livello mondiale che Bruce ebbe con questa pellicola sulla pratica delle arti marziali e, infine, il significato non ancora del tutto decifrato degli aspetti politici e culturali della sua figura di culto, e del movimento che ha creato.
Lee ha incarnato, fra l’altro, l’eroe del post-colonialismo che precede l’inevitabile globalizzazione e concilia tutto, razze, generi, culture diverse e che diventa modello di mascolinità, restando un fenomeno complesso da descrivere ancora oggi.
Di sicuro le sue gesta cinematografiche sono state d’ispirazione per intere comunità negli States: quella nera e quella ispanica, le prime ad affollare i corsi di arti marziali e a realizzare film da protagonisti in concorrenza con quelli cinesi.
Epperò Enter the Dragon crea la risistemazione e la moderazione delle istanze radicali, oltre che un tentativo di tranquillizzare riguardo al “pericolo giallo”, perché le guerre di Corea, Cambogia e Vietnam avevano destato allarme in Occidente. Nonostante questo, Lee resta per molti marxisti un rivoluzionario, capace di rivelare il verbo anche attraverso le sue movenze, fino a creare addirittura una coscienza politica nelle masse adoranti.
Le sue gesta cinematografiche sono state d’ispirazione per intere comunità negli States.
Sicuramente non si può, alla luce di queste considerazioni, liquidare Bruce e la sua filmografia con un boccale di birra e un sacchetto di popcorn. Il fascino dei film di Lee deriva, a detta di molti, dalla doppia chiave di lettura: marzialista da una parte e culturale dall’altra.
A proposito dei movimenti e delle azioni, c’è da osservare che Bruce li ripete ciclicamente in Enter the Dragon: combatte, uccide qualcuno, cammina, si ferma, ricomincia. In pratica stabilisce un ritmo periodico e crea una specie di evento, che verrà travasato nella cinematografia occidentale, specialmente nei western.
Affrontiamo ora il rapporto fra realtà e fantasia nelle opere di Lee. Certo, le fantasie che ci offre sono abbastanza concrete, quelle dell’uomo “potente” che rielabora codici ed esperienze dell’eroe. In particolare, anche la sua forma fisica. È proprio un appello alla persona comune: “Guardami, puoi essere come me, imitami, ti basta imparare il kung fu e cambierai, nel corpo e nello spirito. Diventerai (quasi) invincibile. Diventerai, per quanto sia scarsa la tua pratica, anche un ponte tra i valori di Oriente e Occidente”.
Senza dimenticare il già evocato conflitto di classe e il contributo all’emancipazione delle minoranze etniche negli Stati Uniti. Tutto ciò ben espresso in un racconto coevo del film China di Charles Johnson, in cui un nero di mezza età di nome Rudolph si riappropria della propria identità personale e della propria mascolinità grazie alla pratica delle arti marziali, sfruttando l’unica risorsa di cui dispone: il proprio corpo.
Purtroppo, altri film – specie fra quelli prodotti da case come Golden Harvest e Shaw Brothers – hanno accreditato una soluzione semplicistica ai conflitti di classe e a quelli geopolitici interni e internazionali, ovvero, una bella “scazzottata”. Viene da pensare per esempio alle rivolte razziali nel Sud degli Stati Uniti durante gli anni Sessanta.
Il fascino dei film di Lee deriva … dalla doppia chiave di lettura: marzialista da una parte e culturale dall’altra.
Tornando a Lee, Slavoj Žižek – filosofo e sociologo sloveno, studioso di cinema e di psicoanalisi che insegna a Londra – scrive che addirittura Bruce precede e preconizza la New Age e i suoi profeti occidentali come Jane Fonda, con la loro ossessione per la costruzione del corpo e per le filosofie orientali. Secondo il suo, meno noto, collega Billie Brown, l’evoluzione negli anni Ottanta sarà l’eliminazione degli eccessi di violenza cinematografica e una deriva tardo esistenzialista, che sostituirà lotte etniche e di classe. Oltre alla cancellazione della concezione freudiana dello scontro fra Io ed Es.
Quanto alle fantasie generate dalla visione dei film di Lee, sicuramente convergono sul kung fu in particolare e sulle arti marziali in generale, nella versione coreografica, spettacolarizzata e interdisciplinare che egli ne offriva. Mistica, misteriosa, diversa dallo jeet kune do che praticava nelle palestre. Ovviamente, differente anche dalle arti giapponesi proprie dei samurai che iniziano a circolare sugli schermi quasi in contemporanea alle opere di Bruce. Una chiara esposizione l’abbiamo in Ghost Dog: the way of the Samurai, pellicola del 1999, dove Forrest Whiteaker è un giovane gangster di colore che fa parte di una banda devota al codice d’onore dei samurai e si trasforma in un vero e proprio ninja.
La comunicazione del corpus delle fantasie legate alle arti marziali non può essere ridotta alla trasmissione di una reale pratica tradizionale. Intanto, deve essere collocata nel contesto storico, tenendo presente che ha prodotto e continuerà a produrre – come nell’esempio di Bruce Lee – la trasformazione di simboli, discorsi, ideologie e corpi.