Per “agonismo marziale” intendo la partecipazione alle gare vista non come fine a se stessa, ma come momento più o meno significativo della propria formazione di “budoka”.
C’è una contraddizione di fondo nella scelta, da parte di chi pratica un’arte marziale, di partecipare, per un periodo di tempo più o meno o lungo, alle competizioni. Non mi riferisco qui ai praticanti di karate sportivo, per i quali la motivazione agonistica è esclusiva o prevalente: penso piuttosto ai marzialisti, come lo sono stati i grandi maestri che negli anni ’60 diffusero in Occidente il karate e, in particolare, lo stile Shotokan che fece da apripista agli altri stili.
Il più esplicito a riguardo era il maestro Kase, che si era formato col “karate di guerra”.
Se pensiamo a grandi Sensei, come Kanazawa, Enoeda, Shirai, Ochi, Oishi, Yahara, Tanaka e pochi altri, siamo portati ad associarli alle prestigiose vittorie che conseguirono nei tornei “open” della JKA, conquistando (i migliori di loro) il titolo di Grand Master in kata e kumite.
Eppure quegli stessi maestri, nelle loro lezioni, ci ripetevano che le gare non erano fine a se stesse, che l’importante era partecipare per acquisire esperienza, che l’avversario da battere eravamo noi stessi, con le nostre paure e debolezze, che in una competizione emergevano più nitidamente che nella comfort zone della nostra palestra (che all’epoca poi, tanto comfort zone non era!).
Il più esplicito a riguardo era il maestro Kase, che si era formato col “karate di guerra” di Yoshitaka Funakoshi e considerava le gare né più né meno che un gioco, anche se i più grandi agonisti che “giocavano” con lui sapevano quanto micidiali fossero le sue “giocose zampate”.
A distanza di oltre mezzo secolo da allora, la distanza tra “karate-Budo” e karate sportivo si è fatta siderale e la contraddizione è diventata ancora più stridente. Anche se le occasioni di confronto sono sempre più rare, chi pratica karate tradizionale si chiede che senso abbia gareggiare contro atleti professionisti, come gli atleti dei Gruppi militari.
Chi pratica karate tradizionale si chiede che senso abbia gareggiare contro atleti professionisti.
Soprattutto si chiede se non sia opportuno anche per loro“specializzarsi” nelle gare di kata o di kumite, piuttosto che dividere il proprio tempo fra le due specialità, come ai tempi eroici di Yahara, Brennan, Zoja e Capuana.
Se l’obiettivo è davvero la crescita personale e la sconfitta dei propri fantasmi, credo che la strada da seguire sia sempre la stessa. Purtroppo, l’impressione che si ha osservando la realtà marziale, su quel grande palcoscenico che sono i social media, è che troppi “maestri” di arti marziali vogliano “la botte piena e la moglie ubriaca” e che perciò alternino profferte di fedeltà alla tradizione con proclami trionfalistici in cui i loro allievi hanno conquistato titoli altisonanti in competizioni di livello oratoriale, più che amatoriale.
Stiamo attenti, amici “tradizionalisti” solo a parole: almeno i praticanti di karate sportivo dicono a chiare lettere che gareggiano per vincere. Non trasformiamo una nobile contraddizione, che ci accompagna fin dalla nascita del karate moderno, in una bugia dalle gambe cortissime!