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Storie di katane (Parte 1)

Conte Enrico di Borbone in seiza, con abiti e armi giapponesi, 1889. (Cat. Museo d'Arte Orientale: La Collezione Bardi.)

Com’è possibile che il principe Enrico di Borbone e lo scout blackfoot Dog Child siano ritratti con delle katane?

There is, perhaps, no country in the world where the sword, that knightly weapon of all ages, has in its time, received so much honour and renown as it has in Japan.” (Thomas R.H. McClatchie, The Sword of Japan: Its History and Traditions, 1874).
“Non c’è forse nessun altro paese al mondo nel quale la spada, quell’arma cavalleresca di tutte le epoche, abbia a suo tempo ricevuto così tanto onore e fama come in Giappone.”

Il Borbone “nipponico”
I lettori forse ricordano l’articolo apparso diversi anni fa nella rivista cartacea KarateDo” (n. 5, 2007) dal titolo “La collezione di un principe”, relativo alla straordinaria raccolta di manufatti giapponesi in mostra permanente presso il Museo d’Arte Orientale di Ca’ Pesaro a Venezia.

La famosa spada a lama ricurva e taglio singolo ha una storia affascinate ed eroica che ha origine nel mito.

Come sottolineava l’autore Piero Pasini, la Collezione Bardi è una delle raccolte d’arte orientale più importanti d’Italia e d’Europa. Una ricca e variegata collezione etnografica, storica e artistica di cui raccomandiamo la visita; tenendo presente che gli oggetti in esposizione sono solo una parte del tutto dal momento che il grosso dei manufatti è conservato nei magazzini del museo. Nell’insieme, a sua volta, questo notevole patrimonio etno-artistico rappresenta “solo” quanto rimane dell’intera collezione che all’origine pare contasse oltre 30,000 pezzi. Gli oggetti furono riacquisiti tramite acquisti e regali di prestigio dal principe Enrico di Borbone, conte di Bardi (Parma 1851-Mentone, Francia, 1905), nel corso di un lungo viaggio in Estremo Oriente compiuto negli anni 1887-1889.
Un gran numero di manufatti esposti a Ca’ Pesaro è costituito da splendide armature giapponesi e da bellissime katane che, al di là della loro specifica funzione marziale, rappresentano anche, come del resto altre armi da taglio e da fuoco e oggetti di uso comune in esposizione, delle vere e proprie opere d’arte di straordinaria manifattura, curate minuziosamente nei minimi dettagli.

L’articolo di Pasini riproduce un ritratto di Enrico di Borbone in raffinati abiti da nobile giapponese, seduto (correttamente) in seiza. Il principe, con espressione orgogliosa e serena, impugna due armi tradizionali dell’aristocrazia nipponica e della storica casta dei samurai: un ventaglio pieghevole e una katana, simboli dell’identità e della cultura marziale del Paese del Sol Levante. Non visibile nell’immagine cui sopra, ma presente nell’originale a colori, dipinto su rotolo di tela conservato a Ca’ Pesaro, è un’altra katana (forse più corta – wakizashi) appoggiata sul tatami davanti alle ginocchia del nostro italico “samurai”. C’è poi, come abbiamo detto, il ventaglio, accessorio non solo di corredo, perché anch’esso nelle arti marziali con identità e funzionalità ben definite. Del ventaglio, detto ‘da battaglia’ o ‘da guerra’ (gunsen) e di quello di uso quotidiano più comune (tetsu-sen o tessen) trattano anche Oscar Ratti e Adele Westbrook nel loro Secrets of the Samurai, volume riccamente illustrato che offre anche un’ottima sintesi sulla katana.

La katana, appunto, formidabile arma da taglio nipponica spirito e simbolo del bushi-dō. La famosa spada a lama ricurva e taglio singolo ha una storia affascinate ed eroica che ha origine nel mito. Ed è pur vero che essa presenta anche nel suo passato aspetti che nella nostra ottica occidentale potremmo definire macabri (come ad esempio l’utilizzo di cadaveri e finanche di soggetti umani ancora vivi per la pratica del tameshigiri, o prova di taglio). Ad ogni modo, tornando a Enrico di Borbone, il ritratto del nobile parmense con katana e abiti giapponesi è già di per sé raro e inusuale per l’epoca.
Il Giappone, infatti, in quegli anni era impegnato in una rincorsa alla modernità, dopo che nel 1868 la Restaurazione Meiji aveva decretato la fine del secolare shogunato Tokugawa, conservatore di stampo feudale, unitamente al ritorno del potere imperiale a Tokyo e l’apertura all’Occidente. Vittime primarie di questa politica di “occidentalizzazione” tecnologica e in certa misura anche culturale erano stati i samurai, con l’abolizione della loro casta e il divieto di indossare la katana in pubblico (editto Haitorei del 1876). Come ha raccontato drammaticamente il film L’ultimo samurai (2003) nella bella interpretazione di Tom Cruise, Ken Watanabe e Hiroyuki Sanada. 

… l’indiano canadese armato di katana è indubbiamente altrettanto raro e inusuale.

La katana comunque continuò a essere privilegio della classe nobiliare e delle gerarchie militari. La posa fiera del principe Enrico e la straordinaria quantità di katane e wakizashi (più lunga la prima, più corta la seconda, insieme dette daishō) da lui raccolte, comprovano che l’antico Giappone e le sue tradizionali spade ricurve (nihontō) avevano esercitato un forte fascino sul nostro aristocratico viaggiatore-collezionista di fine Ottocento. Un altro dipinto su tela, infatti, lo ritrae in piedi in armatura nipponica con appesa al fianco una katana (tachi, lama rivolta verso il basso) dall’impugnatura (tsuka) e fodero (saya) finemente lavorati. C’è anche un pugnale (tantō o aikuchi) nel fodero inserito nella cintura (obi) di cotone. Il principe impugna un tipico arco giapponese di bambù, lungo e asimmetrico (yumi); le frecce (ya) nella faretra (yadzutzu), visibili solo parzialmente, e l’immancabile ventaglio completano il corredo.
Aggiungo che proprio all’importante raccolta di Enrico di Borbone hanno attinto i succitati autori unitamente a numerosi altri studiosi e appassionati di cultura nipponica, compresi gli stessi giapponesi. Ricordo infine che l’Italia vanta altre importanti collezioni di arte orientale, nello specifico, di due personaggi coevi al conte di Bardi: Eduardo Chiossone (1832-1898), la cui raccolta si trova a Genova, e Federico Stibbert (1838-1906) a Firenze, quest’ultima in particolare ricca di armi e armature giapponesi come quella veneziana.

Il Blackfoot “samurai”
“Where did the Blackfoot scout find a Japanese samurai sword? It is likely that Dog Child’s samurai sword will remain as just another mystery from the history of the Canadian West.” (Daryl W. Drew, Dog Child and the Samurai Sword, 1980).
“Dove ha trovato lo scout Blackfoot una spada da samurai giapponese? È probabile che la spada da samurai di Dog Child resterà solo un altro mistero nella storia del West canadese.”

Per chi, come lo scrivente, pratica da tempo il karate tradizionale a livello amatoriale e si occupa parallelamente di storia e cultura degli indiani d’America in ambito professionale, ancora più insolito e raro del ritratto del nostro Borbone, è risultato l’incontro casuale con un’altra immagine legata a Nihon-tō (la lama giapponese). Mi riferisco a una foto risalente anch’essa alla fine del XIX secolo, coeva quindi alle tele del “Borbone samuari” cui sopra. A differenza però dei ritratti nipponici del blasonato giramondo italiano (Enrico di Borbone visitò anche le regioni artiche), l’immagine in questione non è un dipinto su tela, bensì una vecchia fotografia scattata nel contesto assai diverso e all’epoca remota delle grandi pianure dell’Ovest canadese.

Abbiamo tutti presente, nell’immaginario collettivo del Far West, la figura dell’indiano “pellerossa” dalla lunga chioma corvina ornata di penne e il viso dipinto, lanciato al galoppo con arco e frecce nella caccia al bisonte, o nel mezzo di una furiosa battaglia con la cavalleria americana, armata a sua volta di sciabole, Colt revolvers e fucili Winchester. La contrapposizione storica di arco e frecce (e della tradizionale mazza o ascia da guerra) da un lato e delle armi da fuoco e delle sciabole dall’altro, riflette lo scontro tra la tecnologia litica “primitiva” degli indiani e quella “moderna” del metallo dell’uomo bianco che ben presto prevalse sulla prima, rimpiazzandola. Se è vero che gli indiani d’America vennero rapidamente in possesso delle più efficaci armi da fuoco, affiancandole alle loro tradizionali armi in pietra, legno e osso, è anche vero che gli stessi indiani rimasero particolarmente affascinati anche delle lunghe lame scintillanti degli uomini bianchi. Non per nulla molte tribù, com ad esempio i famosi Lakhota (o Sioux) coniarono l’appellativo mila hanška, lunghi coltelli, poi entrato anch’esso nel parlato e immaginario collettivo. 

La foto del nativo con katana sguainata fu scattata nella primavera del 1894 nei pressi di Gleichen.

Dell’utilizzo militare, rituale e simbolico di spade, sciabole e altre armi da taglio di manifattura euro-americana da parte degli indiani d’America troviamo notizie sparpagliate, per così dire, nella voluminosa letteratura etno-storica e antropologica, soprattutto in lingua inglese. Diversi anni fa ho iniziato a vagliare queste fonti per riassumerle in una monografia illustrata dal titolo The Long Knife, di prossima pubblicazione. È stato nel corso di questa lunga ricerca – su un aspetto per certi versi inusuale della storia dell’incontro-scontro tra uomini bianchi e uomini rossi (non pensiamo certo alla spada/sciabola come a un’arma tipica degli indiani; e ovviamente non ho preso in considerazione le lame più corte e assai più diffuse di coltelli, pugnali, lame di mazze da guerra e punte di lancia) –, che mi sono imbattuto nella fotografia di un “pellerossa samurai”. Per chi scrive si è trattato del primo riscontro di questo tipo; messo a confronto con il nostro Enrico di Borbone l’indiano canadese armato di katana è indubbiamente altrettanto raro e inusuale.

(Continua)

 

Letture consigliate
  • Daryl W. Drew, Dog Child and the Samurai Sword, 1980.
  • Oscar Ratti e Adele Westbrook, Secrets of the Samurai, 1973; ed. ita. I segreti dei samurai, 1983.
  • Peter Bleed, Indians and Japanese Swords on the Northern Plains Frontier, 1987.
  • Fiorella Spadavecchia, Museo d’Arte Orientale. La collezione Bardi: da raccolta privata a museo dello Stato, Quaderni della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Venezia, 16, Venezia, 1990.
  • Cesare Marino, et al., Red Cloud, Dog Child, and the Long Knife of the Samurai in Indian Country, 2018.

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