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Un Gaijin al Meisei-Juku

Un Gaijin al Meisei-Juku
Gichin Funakoshi circondato dai suoi allievi al Meisei-Juku

Come per “magia” una vecchia fotografia del M° Funakoshi al Meisei-juku mi riporta al tempo in cui si praticava il Todee…

Ho davanti a me una vecchia fotografia, sgranata e ingiallita dal tempo, che ritrae il maestro Gichin Funakoshi circondato dai suoi allievi al Meisei-Juku, il pensionato per studenti nel quale insegnò tra il luglio 1922 e il 1924 quando, dopo uno spaventoso terremoto che devastò Tokyo provocando oltre 100.000 morti, si trasferì allo Yushin-Kan.
Al centro della foto, il maestro Funakoshi tiene in mano un sai. Sul pavimento, vicino a lui, vi sono delle sciabole di legno (bokuto) e un bastone di legno (bo). Davanti alla mano libera di Funakoshi c’è un makiwara portatile.
In prima fila si riconoscono Hironoru Otsuka, il fondatore del Wado-ryu, e Toshiyuki Shimizu. Dietro quest’ultimo è in posa Yoshitaka Funakoshi, il figlio del maestro destinato a portare una rivoluzione nell’insegnamento del padre. Tutti i presenti indossano dei karate-gi bianchi con delle cinture sottili. Nella foto figurano curiosamente anche due figure femminili, una sorridente, vestita di bianco, l’altra, con le mani congiunte sul grembo, vestita di scuro.

Yoshitaka Funakoshi, il figlio del maestro destinato a portare una rivoluzione nell’insegnamento del padre.

Mi sono preparato scrupolosamente per questo viaggio in Giappone. Ho frequentato per sei mesi un corso intensivo di giapponese all’Istituto Tozai di Milano. Ho chiesto e ottenuto dal maestro Naito una lettera di raccomandazione per il maestro Osaka, requisito indispensabile per essere ammesso nell’Hoitsugan Dojo, che fino a pochi anni fa aveva anche delle camere disponibili per i karateka provenienti da tutti gli angoli del mondo. Ho messo nella valigia due karategi nuovi di zecca e poche altre cose, e ora non mi resta che contare le ore che mi separano dalla straordinaria avventura…

Il mio volo parte venerdì pomeriggio alle 15,25 da Malpensa e arriverà a Tokyo alle 10,35 di sabato mattina: in tutto, dodici ore e dieci minuti. Non mi spaventa la lunghezza del volo, anzi, spero di dormire e di arrivare in Giappone abbastanza riposato per mettermi subito alla ricerca del dojo e di un albergo decente, ma non troppo costoso: solo il volo mi è costato seicento euro e io non navigo certo nell’oro. Questo viaggio in Giappone è il regalo che mi sono fatto per festeggiare la fine dei miei quasi 40 anni di insegnamento nella scuola britannica di Milano.

Sabato 25 maggio 2019: mi è accaduto qualcosa di imprevisto. Appena messo piede a bordo dell’aereo, sono stato colto da un’inspiegabile sonnolenza. Ho avuto appena il tempo di sistemare i bagagli a mano e sono caduto in un sonno profondo simile al letargo. Devo aver dormito per tutta la durata del viaggio e aver passato anche i controlli doganali in una specie di trance. Fatto sta che mi sono trovato fuori dall’aeroporto internazionale di Tokyo-Haneda, con un gran mal di testa e l’urgenza di fermare un taxi e di farmi portare nel quartiere di Ebisu-Nishi, dove è situato il Dojo Hoitsugan.

A parte o, forse, proprio a causa del mio stato semi-comatoso, ho anche l’assurda sensazione di essere atterrato nel Paese sbagliato. Non c’è niente che mi confermi che mi trovo all’aeroporto di una delle nazioni tecnologicamente più avanzate del mondo. Non fosse per il biglietto di aereo che ho in tasca, giurerei di essere a Bangkok o forse nelle Filippine, più probabilmente nel terzo mondo. Le automobili che passano davanti a me sono poche e vecchissime, le motociclette ancora più rare e sgangherate. C’è invece un mare di biciclette che mi ricorda le vecchie immagini della Cina all’epoca della Rivoluzione Culturale. Le donne indossano lunghi kimoni floreali, gli uomini giacca, cravatta e cappello. Passano alcuni risciò, perfino un carretto trainato da cavalli. Quando tornerò a Milano, scriverò un bell’articolo sullo stato fatiscente dell’aeroporto più importante del Giappone!

Cercando di superare il malessere e lo sbalordimento, mi avvicino a un’automobile nera (stile Balilla) che sosta sul marciapiede, chiaramente in attesa di clienti. Fra me e me, spero che il piccolo capitale investito nello studio intensivo del giapponese dia ora i suoi frutti. Quella che segue è la fedele traduzione del mio stentato dialogo con l’autista.
“Buongiorno, è libero?” “Buongiorno. Come sta?”
“Bene, grazie. È libero?” “Sì, prego. Da dove viene?”
“Dall’Italia. Mi può portare nel quartiere Ebisu-Nishi?” “Dove, mi scusi?”
“A Ebisu-Nishi! Cerco un dojo di karate.” “Non ho capito bene. Forse vuole andare a Ebisu-Nishi?”
“Sì, grazie”.
Con un sospiro di sollievo salgo a bordo della vecchia vettura, tutta cuoio e metalli, mentre il taxista sistema nel bagagliaio il mio trolley, al quale lancia un’occhiata incuriosita, e la mia borsa da allenamento.
In Giappone si viaggia a sinistra come in Inghilterra e contrariamente alle mie previsioni il traffico è molto spedito, anzi, quasi inesistente.

Non fosse per il biglietto di aereo che ho in tasca, giurerei di essere a Bangkok…

“Sharin-tsuki no sūtsukēsu wa utsukushīdesu!” (Ho capito, fa i complimenti alla mia “valigia con le ruote”. Come se fosse una novità in Giappone! Approfitto della sua propensione al dialogo).
“Cerco la palestra di karate del maestro Osaka”
”Karate wa nanidesu ka? Koko Ōsaka ni imasen!“ (Cos’è il karate? Qui non siamo a Osaka!)
Siamo messi bene. O la mia pronuncia è veramente pessima o la diffusione delle arti marziali in Giappone è ampiamente sopravvalutata. Tento un’ultima carta.
“Il karate è l’arte marziale di Okinawa! Dove si pratica qui a Tokyo?”
Il volto dell’autista si illumina. Anche lui, a quanto mi dice, viene dalle Ryukyu.
“Watashi wa anata o Okinawa no gakusei-muke hoteru ni tsurete ikimasu!”
Ho capito solo “Okinawa”, ma mi basta. Taccio, mentre l’autista mi porta a spasso per una buona mezz’ora in una Tokyo irriconoscibile, senza grattacieli né insegne “glamour”. Mi rassicura solo il profilo del monte Fuji, sullo sfondo.
Vivo un attimo di vero imbarazzo al momento di pagare la corsa. Il taxista non accetta la mia carta di credito e rifiuta i miei yen, guardandomi con diffidenza.
“Kono okane wa nisemonodesu!” Come, i miei soldi sono falsi? Per fortuna ho con me anche dei dollari, che vengono accettati, ma non senza riserve. Prima di potergli chiedere altri chiarimenti, l’autista riparte e io mi avvio verso la porta di quello che non mi sembra affatto il dojo del maestro Osaka. Forse mi ha portato a un albergo a una stella?

Ho appena parlato con il custode di quella che a quanto pare è la Casa dello studente, riservata ai giovani di Okinawa che vengono qui a Tokyo a studiare all’università (che infatti è nei paraggi). È un ometto coi baffi, di mezza età, molto cerimonioso e gentile, che per coincidenza assomiglia molto alle vecchie fotografie del maestro Funakoshi! Mi ha detto che i gaijin (gli stranieri) non possono alloggiare lì e mi ha spiegato come raggiungere un albergo economico nel quartiere universitario.
Ho cercato di avere indicazioni sulla palestra del M° Osaka e mi sono spinto fino a fargli leggere la lettera di raccomandazione del maestro Naito. È rimasto molto colpito, anche se ha dichiarato anche lui di non aver mai sentito parlare di “mano vuota”. Ha nominato il jujitsu e il kendo, e allora ho aperto la borsa e gli ho fatto vedere il mio karategi. Ha esaminato con attenzione il tessuto, scuotendo la testa incredulo, e alla fine mi ha detto che dal lunedì al venerdì, dalle 14 alle 16, alcuni studenti praticavano una nuova arte marziale, della quale non ho afferrato bene il nome (ma avrei giurato, se non fosse assurdo, che avesse detto to-dii, l’antico nome del karate nella pronuncia di Okinawa).
Mi ha invitato a tornare il giorno dopo e io, per pura cortesia, ho detto di sì, riservandomi di passare il pomeriggio alla ricerca di quello che mi interessava davvero.

Domenica sera. Ho passato un pomeriggio veramente frustrante. Il telefono cellulare non funziona nel centro di Tokyo (?!) e sembra che nessuno capisca il termine denwacho (elenco telefonico). A dir la verità, non ho neppure il telefono nella camera dell’albergo in cui sono finalmente approdato e i bagni sono nel corridoio. Ho cenato nell’albergo ed è stato un pasto davvero giapponese, senza che mi venisse offerta nessuna alternativa allo shina soba (tagliatelle in brodo di pesce), seguito da un ottimo sukiyaki (fette di carne di manzo, tofu, verdure e un uovo sbattuto). Ho rinunciato al sake e all’idea di un’uscita notturna nelle strade di Tokyo, perché mi sento stanco e stordito dalle troppe novità. Sono andato a letto presto con la speranza di ambientarmi un po’ meglio domani. 

Sono anche incuriosito dalla prima lezione di quella nuova arte marziale di cui mi ha parlato il custode e che ho deciso di seguire, anche se sono veramente deluso dal fatto che nessuno, neppure il personale dell’albergo, conosca il karate: mi ha chiesto se ero un esperto di boxe, che a quanto pare è molto popolare di questi tempi in Giappone.

Lunedì pomeriggio. Ho finito il primo allenamento, che è stato pieno di sorprese. Prima di tutto, o il custode ha un fratello gemello, oppure ieri mi ha preso in giro, perché oggi, quando sono arrivato alle due meno un quarto all’ostello degli studenti, indossava quello che sembrava un kimono da karate, cucito a mano e molto leggero, e gli cingeva i fianchi un sottile nastro nero. Mi ha guardato sorridendo “sotto i baffi”, evidentemente fiero dello scherzo che mi ha fatto. Eppure lo avevo visto lavare il pavimento! Mi sono cambiato in silenzio nello spogliatoio, ho lasciato prudentemente nella borsa la mia cintura nera della Tokaido, ho indossato quella bianca, e sono entrato nel “dojo”, in realtà una sala da conferenza di 30 o 40 metri quadrati, dalla quale erano state rimosse e accatastate in un angolo tutte le sedie.
Oltre all’insegnante, erano presenti sette o otto allievi, due dei quali indossavano un gi simile a quello del maestro, mentre gli altri erano in pantaloncini e maglietta. Mi hanno guardato con curiosità e diffidenza, ma il maestro ha detto poche parole con calma fermezza e tutto è cominciato, senza saluti in ginocchio né altre cerimonie.

”Karate wa nanidesu ka? Koko Ōsaka ni imasen!“ (Cos’è il karate? Qui non siamo a Osaka!)

Dopo dieci minuti mi è stato chiaro che quello che stavamo praticando ERA uno stile di karate, anche se diverso dallo Shotokan e se il maestro e gli altri allievi si ostinano, forse per un vezzo “rétro”, a chiamarlo todee come l’antica arte di Okinawa. Che sia un gruppo di ricerca del karate antico?
Fatto sta che il maestro “Gichen” (così ho inteso che si chiama) mi ha subito corretto il pugno, mostrandomi come far sporgere la nocca dell’indice, formando quello che nello Shotokan si chiama ippon ken. Mi ha poi accorciato la posizione di circa un terzo e mi ha lasciato in pace per il resto della prima ora.
Abbiamo allenato Pinan nidan (il nostro Heian shodan), forse perché alcuni allievi erano dei veri principianti. Ho notato che tutti (compreso il maestro) portano avanti la spalla in oizuki e si alzano durante gli spostamenti. Gli ultimi quattro shuto sono eseguiti in una posizione arretrata molto corta, una via di mezzo tra la nostra e quella a zampa di gatto.
Il maestro “Gichen” non enfatizza molto la potenza, ma insiste sulla fluidità degli spostamenti (o almeno questo è quello che ho capito). Durante la prima ora abbiamo eseguito una ventina di volte il kata e nient’altro. Alla fine dell’allenamento quattro allievi hanno preso degli stracci e gattonando hanno rapidamente pulito il tatami, gettandomi occhiatacce perché non mi univo a loro. Ma io sono un pensionato e non sarei stato così rapido né efficiente…

La seconda ora è stata più movimentata. Sono andati via i cinque allievi “in borghese” e sono subentrati quattro praticanti in karategi. I nuovi venuti indossano “nastri” bianchi, ma sembrano tutti molto a loro agio, hanno anzi un’aria decisamente supponente e mi hanno dedicato sguardi più sprezzanti che incuriositi. Il maestro ha detto loro che sono un gaijin che pratica in Italia un’arte simile alla loro e che dovevano mettermi a mio agio. Nessuno ha parlato durante la lezione, nessuno ha detto “oss”.
Abbiamo fatto ancora kata (nessun segno di fondamentali o di esercizi in coppia, e forse è un bene, vista l’aria poco rassicurante di alcuni dei miei compagni di allenamento. Il kata scelto dal maestro è stato Wanshu, il nome antico di Empi) e sono stato contento di poter seguire la lezione, in quanto lo pratico da almeno una trentina d’anni. Anche qui però sono emerse delle differenze importanti, che non sto a elencare. Ero sempre in ritardo rispetto ai miei compagni, anche perché cercavo di esprimere il massimo kime a ogni tecnica. Le ultime tecniche del kata sono eseguite velocemente e il salto è veramente spettacolare!

“Non così forte” credo che mi abbia detto una volta il maestro, ma non ne sono sicuro. Negli ultimi dieci minuti, quando stavo già festeggiando lo scampato pericolo, il maestro si è seduto e uno dei praticanti arrivati alla seconda ora ha preso il suo posto. Aveva un’aria fiera, il viso un po’ schiacciato, che mi ha fatto pensare al muso di un toro, e ci ha disposti in coppie. Io sono finito con un certo Noguchi. L’allenamento consisteva nell’andare avanti e indietro per la sala rispettivamente attaccando con pugni al viso e parando con diversi tipi di difese. Una specie di combattimento a cinque passi, solo che nel nostro caso erano molti di più e non c’era un attimo di tregua.
Terminato senza danni il primo round, siamo passati ai pugni al corpo e abbiamo cambiato compagno. La sfortuna ha voluto che capitassi proprio di fronte all’atleta che ha preso il posto del maestro nell’allenamento. Contava urlando e contemporaneamente scagliava i suoi zuki chudan, che facevo del mio meglio per parare con uchiuke. Al quinto attacco mi ha colpito in pieno al plesso solare e sono rimasto senza respiro. Si è fermato, perché altrimenti mi avrebbe travolto, ma mi ha detto qualcosa di aspro e di energico, tipo “Forza, stupido gaijin” o peggio. In quel momento il maestro ha alzato gli occhi e gli ha sussurrato qualcosa, sempre con la sua voce ferma e pacata. Il mio avversario si è inchinato profondamente e ha concluso gli attacchi molto lentamente, con un sorriso sprezzante disegnato su quella sua faccia da toro. Punto sul vivo, quando è toccato a me attaccare, ho fatto del mio meglio per metterlo in difficoltà, ma tutto quello che ho rimediato sono state dieci mazzate sui miei avambracci, concluse con un contrattacco al volto che si è arrestato dopo un lieve impatto sul mio naso.

…il maestro e gli altri allievi si ostinano, forse per un vezzo “rétro”, a chiamarlo todee come l’antica arte di Okinawa.

Uscendo dalla sala per avviarmi con gli altri verso i bagni, ho assistito a una scena incredibile. Le stanze del primo piano erano occupate da studenti che ci osservavano passare con curiosità o con derisione. Uno di loro, totalmente nudo, ha orinato dalla finestra e lo zampillo ha mancato di poco il maestro, che era alla testa nel nostro piccolo corteo. Subito i karateka si sono voltati e l’hanno insultato, urlandogli contro epiteti per me incomprensibili. L’atleta dal naso rincagnato (che ho poi scoperto essere un figlio del maestro) ha fatto per avventarsi su per le scale per dare una lezione a quel teppista, probabilmente ubriaco, ma il maestro, rivelando un’energia sorprendente, lo ha afferrato, anzi artigliato, per un braccio, impedendogli di attuare il suo proposito. Nel frattempo gli parlava con calma, finché il figlio ha desistito, pur continuando a scuotere la testa rabbioso.
Quando siamo entrati nei bagni per sciacquarci dopo l’allenamento, il maestro ci ha detto: “Non dovete arrabbiarvi così facilmente. Se anche mi avesse bagnato, adesso potrei lavarmi e asciugarmi. Non è successo niente di grave”.

Ora sono tornato in albergo e termino di scrivere questi appunti, sento che la spossatezza, che non mi ha mai lasciato dall’inizio di questo viaggio in Giappone, sta nuovamente prendendo il sopravvento. Chiudo gli occhi e mi sdraio sul letto.
Quando riapro gli occhi, mi ritrovo fra le mani la vecchia fotografia del maestro Funakoshi al Meisei-juku, guardando la quale mi ero addormentato ieri sera. Sono in camera mia a Milano. Il mio viaggio in Giappone è ancora di là da venire, ma difficilmente sarà avventuroso ed emozionante come il mio sogno.

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