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Il sincretismo logico del Giappone… e del Karate

Al di là di qualsiasi nomenclatura il Karate è “yuiitsu muni”, una cosa sola.

Un sincretismo logico non è cosa sciocca, né tanto meno inutile.
Benché il mio credo religioso sia definito, ho costantemente il piacere e la volontà di comprendere e vivere esperienze spirituali di altre culture e quando vado in Giappone tutto ciò è molto vivo in me, mi ricarica enormemente di energia positiva. In fondo tutto può diventare meditazione, contemplazione dell’essere, del mondo, del divino e aiutare a vivere meglio. Anche trovarsi al cospetto di un simbolo che ricordi qualcuno culturalmente e storicamente lontano da noi, e onorarne il bene compiuto al prossimo, è aumentare la propria sensibilità, favorire un’introspezione e assecondare la spiritualità. Il sincretismo, del resto, si verifica anche nelle espressioni di arte e cultura, così come nella politica.

In fondo tutto può diventare meditazione, contemplazione dell’essere, del mondo, del divino e aiutare a vivere meglio

Anche secondo Papa Wojtyla Dio non dev’essere solo oggetto di pensiero, ma di esperienza; egli disse che ci sono esperienze umane, morali e religiose che non sono meno reali e significative (della nostra)… E se è possibile parlare di tali esperienze, è difficile negare che, nell’orbita delle esperienze umane, si trovino anche il bene e il male, si trovino la verità e la bellezza, si trovi anche Dio.
Nella contemplazione shintoista, ad esempio, c’è la preghiera “Kashikomi-Kashikomi Mousu” che può significare “riverire la natura” o “agire spiritualmente” e non è questo, forse, un incontro col divino?

Proprio nello scorso mese di marzo, mi sono recato nuovamente in Giappone per approfondire il Kojoryu Karate presso il dojo di uno dei miei principali maestri, Shingo Hayashi Sensei, nonché per continuare lo studio del Jujutsu e del Battodo, che questa volta mi ha condotto al dojo di Masashi Yokoyama Hanshi, 15° Soke del Mondoryu Heiho.
In questa occasione, dunque, non ho raggiunto anche l’isola di Okinawa, come sono solito fare, ma ho speso tutti i giorni a disposizione per soggiornare esclusivamente nel mainland e approfittarne, come sempre, per visitare siti storici e religiosi, e quest’anno l’ho fatto con la particolare necessità di immergermi ulteriormente proprio nel senso “filosofico-religioso” tipico del Giappone.
Tale necessità era dettata dal fatto che sono sempre spinto dalla volontà di comprendere quali possano essere le radici più profonde di un’idea, come si possano sviluppare certi principi e si possano intrecciare tra loro. Essa si è sviluppata maggiormente negli ultimi mesi attraverso la pratica dello Shodo, per il quale mi sono recato a Osaka per affrontare un esame per la licenza d’insegnamento; la calligrafia tradizionale è manifesto esempio di come una dottrina giapponese possa contenere disciplina tecnica, mentale e ricerca dell’introspezione, fino a divenire una vera e propria “azione zen”.
Così, quale cultura se non quella giapponese è sinonimo di sincretismo? 

Questa fusione di idee, però, non è presente solo nella (filosofia di) vita quotidiana di questo popolo, ma mi rendo sempre più conto che è estremamente presente nel Budo/Bujutsu, in qualsiasi forma di arte marziale, e lo è assolutamente nel Karate, soprattutto in quello cosiddetto “vecchio stile o classico”.
Più proseguo con l’approfondimento del Kojoryu, ad esempio, più verifico quanto esso sia intriso di concetti, elementi tecnici e tattici provenienti da più fonti; certamente già la sua stessa storia, come visto nel mio precedente articolo, ci insegna quanto esso sia stato influenzato da più personaggi, esperienze e discipline di varia natura.

… la calligrafia tradizionale è manifesto esempio di come una dottrina giapponese possa contenere disciplina tecnica, mentale e ricerca dell’introspezione.

Com’è tipico nel Karate di Okinawa, ogni esperienza tecnica vissuta personalmente viene “resa propria” col passare del tempo, con la pratica costante e con l’applicazione diretta, e questo è forse maggiormente tipico del Karate più “anziano”, ove ciò che veniva trasmesso e praticato non era stato scartato in quanto funzionava nel combattimento reale. Se ne deduce come il bagaglio tecnico del Karate possa essere ricco, variegato e, in un certo senso, personalizzato o personalizzabile. A Okinawa dicono che il Karate è un chanpuru, cioè utilizzano la metafora della loro tipica “insalata saltata in padella” per suggerire quanto il Karate sia un mix di diversi elementi ed esperienze.
Hayashi Sensei, ad esempio, mi ricorda spesso che il suo maestro Kafu Kojo studiò pure Sekiguchiryu Jujutsu e che il Kojoryu Karate è stato anche influenzato da questo metodo, così, mi sottopone ad ardue sedute di nage-waza e kansetsu-waza…

Del resto la storia del Karate ci fa notare come moltissimi famosi maestri del passato abbiano studiato a loro volta con insegnanti di diversi metodi e come i loro stili (ryu), oggi consolidati, contengano elementi tecnici riconoscibili in “modi di fare” anche apparentemente diversi tra loro. Balzando dal passato al presente, possiamo ricordare alcuni esempi: Chokei Kishaba (Shorinryu Kishaba Juku), Tatsuo Shimabuku (Isshinryu), Yuichi Kuda (Matsumura Kenpo Karate), Shigeru Nakamura (Okinawa Kenpo), Shoshin Nagamine (Matsubayashiryu), Kenwa Mabuni (Shitoryu), Yoshizato Shintaro (Kushinryu), Kensei Taba (Shogenryu), Akio Kinjo (Jukendo), Hironori Otsuka (Wadoryu) etc.
Attenzione, mix di elementi non significa, però, che basta creare un syllabus di tecniche e dare un nome al proprio metodo, perché si possa inventare un ulteriore stile di Karate e che esso possa essere ritenuto tale! Ogni (vecchio) stile di Karate si è sviluppato dalla magistrale mescolanza di esperienze che hanno matrice comune nel “modo di fare” okinawense, nella stessa cultura isolana, e nel metodo di allenamento tipico che scaturisce da precise esigenze e attitudini fisiche. 

Praticare Karate, dunque, vuol dire studiare non solo tecniche di calcio e pugno, tecniche di lussazione etc., ma anche ciò che risiede alla base di questo metodo di combattimento, sia dal punto di vista tecnico sia culturale.
Ho notato, in realtà, che anche in Giappone considerano il Karate come una sorta di mixed martial arts, alla stessa stregua di Okinawa, sempre se si tratta di scuole vecchio stile, e ho visto che sovente esso è presente in programmi di studio di metodi di Bujutsu più ampi, spesso sotto l’appellativo di Kenpo, come nel caso della linea di Daitoryu Aikijujutsu che seguo nella quale si fa addirittura uso del Bubishi come manuale tecnico di riferimento per lo studio/ricerca delle tecniche più antiche.
Yokoyama Sensei, che è anche esperto di Shitoryu Karate, mi spiega spesso come nel Mondoryu Heiho sia presente una forte componente di Kenpo, e quando mi mostra l’utilizzo del corpo nel metodo di Jujutsu della sua famiglia, fa spesso riferimento a nomi di animali per indicare le tecniche, ad esempio, questa volta mi ha fatto lavorare molto sulla tecnica del serpente come tattica di evasione e contrattacco – Questa tecnica/tattica, tra l’altro, mi è apparsa estremamente simile al cosiddetto Aiki-kamae, cioè alla guardia del serpente, una delle famose dodici guardie del Kojoryu Karate –.

A Okinawa dicono che il Karate è un chanpuru, cioè utilizzano la metafora della loro tipica “insalata saltata in padella”.

Ecco, come più porto avanti la mia personale ricerca e pratica tra i meandri delle antiche scuole di Bujutsu e di Karate, più mi rendo conto di quante similitudini ed elementi in comune vi siano tra esse, quasi come se fosse chiara una matrice comune che troppo spesso viene sottovalutata.
Un tale sincretismo di esperienze e d’idee è di estremo valore educativo per lo studio del combattimento, esso può favorire una visione molto più ampia sull’utilizzo del corpo, sulle possibilità di ampliare il proprio bagaglio tecnico, e assorbire principi che possono favorire la propria crescita tecnica e migliorare il proprio modo di lottare. Come nel Bujutsu, dunque, anche nell’introspezione personale, nella pratica spirituale, vi è un sincretismo logico che scaturisce dalla possibilità di guadagnarsi ulteriori esperienze che permettono di aprire molto la mente e di saper guardare il mondo attorno con la consapevolezza che siamo una cosa sola con esso. Così come, al di là di qualsiasi nomenclatura, il Karate è “yuiitsu muni”, una cosa sola!

 

FONTI
– Giovanni Paolo II – Varcare la soglia della speranza, di Giovanni Paolo II e Vittorio Messori, Arnoldo Mondadori Editore, 1995.
– Alcune informazioni sono tratte anche da interviste (non pubblicate) dell’autore a Shingo Hayashi Sensei e a Masashi Yokoyama Sensei, Marzo 2019.

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