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La Fesika era un gran cantiere

Foto di Sergio Roedner

“Quello della Fesika fu un decennio meraviglioso nel quale il M° Shirai ricostruì un’organizzazione destinata a colonizzare l’Italia…”

Inizia oggi questo nostro viaggio nel tempo che, a balzi di 50 anni per volta, ci riporterà alle origini della nostra disciplina, fin dove almeno fonti e testimonianze ci possono permettere di risalire con una qualche verosimiglianza storica.
All’inizio degli anni Settanta, quando chi scrive ebbe la fortuna di iniziare la pratica del karate nel centro stesso della sua elaborazione (il CSKS di Milano), la Fesika era un grande cantiere dove anche i nuovi venuti potevano percepire il fervore della crescita, lo slancio dell’espansione, l’entusiasmo nel reclutamento di nuovi adepti di questa nuova religione, laica ma non troppo, che era il karate-do. Nessuno allora parlava di “karate tradizionale” e il carattere anche sportivo della pratica era inglobato nel nome stesso della federazione, Federazione Sportiva Italiana Karate. 

… entusiasmo nel reclutamento di nuovi adepti di questa nuova religione, laica ma non troppo, che era il karate-do.

Premesso questo, nessuno di noi aveva la percezione di praticare uno sport qualunque, perché c’era ben poco di ludico in quelle che erano (e sono) giustamente definite lezioni, non allenamenti: prove di resistenza psico-fisica per temprare lo spirito non meno del corpo, superate grazie al sostegno dei compagni e all’incoraggiamento del maestro, che spesso mentre insegnava praticava accanto a noi.
L’analogia federazione-cantiere può essere supportata da ulteriori riscontri: ogni giorno si presentavano nuove reclute e partivano nuovi corsi a tutte le ore del giorno fino a tarda sera, tanto che ben presto la vecchia sede di via Bezzecca si rivelò insufficiente e fummo tutti traghettati nella mega palestra di via Maffei, che arrivò a essere una delle più grandi d’Europa, con migliaia di praticanti di ogni grado e livello. L’architetto di questa nuova creazione – che prendeva il posto della vecchia Associazione Italiana Karate, abbandonata e un po’ tradita da alcuni dei più anziani praticanti – era il maestro Hiroshi Shirai, sempre presente sul tatami e negli uffici per incoraggiare e spronare tutti col grande carisma che gli era riconosciuto anche dagli avversari. 

La Fesika, federazione nuova e in vertiginosa espansione, aveva urgente bisogno di “quadri” e quindi sfornava cinture nere, aspiranti istruttori e istruttori con un ritmo inconcepibile adesso. Il maestro Fugazza si meritò la cintura nera in un anno, io, che non ero nessuno, riuscii a guadagnarmela in tre anni e mezzo. Per i nuovi yudansha c’era il corso istruttori, biennale, nel quale insegnavano grandi maestri come Kase, lo stesso Shirai, Montanari, Capuana, Fugazza, e che culminava in una settimana di full immersion all’Euroschool di Bergamo, durante la quale tra prove durissime e test psico-fisici si conquistava l’accesso all’insegnamento. 

I nostri istruttori erano a loro volta karateka, con al massimo cinque o sei anni di pratica, e non erano più esperti di loro neppure gli atleti che partecipavano con successo ai vari campionati europei e mondiali della Japan Karate Association e della neo-nata International Amateur Karate Federation, gestita da abili manager quali il maestro Nishiyama e il conte Zoja. Una parte importante del successo della Fesika (in confronto a vari altri gruppi che coordinavano il karate nello stesso periodo in altre parti d’Italia) era infatti la capacità organizzativa, che sfociava in grandi eventi capaci di riempire il Palalido di Milano.

Insegnavano grandi maestri come Kase, lo stesso Shirai, Montanari, Capuana, Fugazza.

Un campionato italiano del 1973, per dire, ottenne un successo di pubblico superiore ai campionati mondiali di Los Angeles o del torneo a inviti di Città del Messico del 1968. Il pubblico era attirato dalla sapiente formula per cui a brevi incontri, della durata di 2 minuti e dalle regole semplici e chiare per tutti, si alternavano eccitanti dimostrazioni con i migliori maestri giapponesi di stanza in Europa. C’era un solo vincitore per il kumite, otto finalisti per il kata e nessuno si annoiava. Esattamente l’opposto di certe manifestazioni odierne della federazione mondiale riconosciuta dal CIO, che riempie a metà le tribune grazie ad atleti e loro parenti.

Si progrediva dunque più rapidamente di adesso, allenandosi intensamente e seguendo stage della durata di più giorni che si svolgevano in località marine o lacustri, offrendo così la possibilità, almeno teorica, di alternare il duro lavoro al relax. Era in quelle occasioni che si apprendevano i kata superiori, gelosamente custoditi dai maestri e tramandati col contagocce. I nostri stessi insegnanti italiani non padroneggiavano ancora l’intero patrimonio dei 26 kata Shotokan, o non lo condividevano certo con le neo-cinture nere.
Nei campionati europei i kata più complessi erano Bassai-sho, Empi, Kanku-sho e Nijushiho. Ricordo di aver visto eseguire per la prima volta Gojushiho-sho dal mio maestro di allora, Rosario Capuana, e di essermi chiesto come facesse a ricordarlo tutto (la stessa riflessione pochi anni prima mi aveva suscitato la vista di Bassai-dai che alcune cinture nere stavano allenando in vista dell’esame).

Il karate che praticavamo allora era senz’altro più semplice e “monotono” di adesso: fondamentali interminabili da shizen-tai seguiti da altri kihon avanzando e indietreggiando; eterni gohon kumite e kihon ippon kumite, che ci dimostravano quanto fosse difficile applicare le parate appena apprese contro avversari determinati a colpirci. E tante, tante ripetizioni dei kata, con scarne spiegazioni sul significato delle tecniche. Di jiyu kumite, neanche l’ombra fino a dopo l’esame di cintura nera; di kata bunkai nel senso approfondito che ha oggi il termine, ancora nessuna traccia.
Quello che non si faceva durante le lezioni, si cercava di impararlo per conto proprio, da autodidatti: un po’ di jiyu kumite nella pedana secondaria in attesa dell’inizio degli allenamenti, qualche kata appreso da un amico più esperto e allenato in camera nostra.
Un’altra grande sconosciuta era la difesa personale: la apprezzavamo nelle dimostrazioni, ne sentivamo parlare nei libri di karate che divoravamo, ma non faceva parte del programma (a meno che non fosse insegnata in maniera implicita, come qualcuno ancora sostiene).

I nostri istruttori erano a loro volta karateka, con al massimo cinque o sei anni di pratica…

Quello della Fesika fu un decennio meraviglioso nel quale il maestro Shirai ricostruì, più forte di prima, un’organizzazione destinata a colonizzare l’Italia e a spopolare sui tatami di tutto il mondo, impensierendo a livello agonistico anche il Giappone nei tre mondiali del 1973, 1975, 1977 con i nostri campioni sempre sul podio. Ma un imprevedibile cupio dissolvi, nel corso del fatale 1978, spinse i suoi dirigenti al sacrificio supremo in nome dell’unità del karate italiano e del sogno olimpico (destinato però ad attendere altri 40 anni). Dopo un altro decennio di convivenza più o meno feconda e conflittuale, l’uscita degli ex-Fesika dalla federazione unitaria e la ricostituzione di un gruppo autonomo (l’attuale Fikta, che esiste e resiste da ben 30 anni) non sarebbe avvenuta senza perdere per strada altre palestre e maestri che avevano seguito il maestro Shirai fin dal suo arrivo in Italia. Ma il maestro era pronto a ricominciare a tessere la propria tela…

Nel prossimo articolo la nostra macchina del tempo ci porterà a Tokyo, negli anni ’20 del Novecento.

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