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Temporalità Zen

Temporalità Zen

Nello studio della Via del Karate alcune deduzioni su cosa si intende con il situarsi nel luogo in cui essere e tempo coincidono.

(In KarateDo n. 25 Gen-feb-mar 2012)

Una concezione di base della temporalità secondo la dottrina Zen può essere resa graficamente con 2 linee: 

  • una orizzontale, rappresentativa del tempo ordinario e lineare qual è precisato nei termini di ieri, oggi, domani;
  • una linea verticale che definisce il tempo assoluto, eterno, quale espressione della forza e pienezza di tutto il tempo.

Quando la natura originale dell’essere è realizzata si manifesta precisamente nel punto d’incontro di queste linee, in quello spazio dove relativo e assoluto si uniscono senza ostruirsi.
La comprensione di questa dimensione temporale implica la risoluzione delle dinamiche duali, soggetto-oggetto, che relegano l’essere nella sfera concettuale, paradigma di una limitata visione della realtà.

Anche nella Via del karate è importante capire la dualità e i limiti che essa pone al nostro agire confinandoci in un ristretto ambito individuale, il quale attiva una costante barriera concettuale che ci isola dalla nostra natura più intima e intuitiva.
Sulla pietra tombale del M° Funakoshi è inciso il principioKarate ni sente nashi” – “Il karate non è iniziare per primi”, a indicare la profondità della sua realizzazione che poggia su una piena libertà da se stessi, dal proprio ego, condizione imprescindibile per dare espressione a un’autentica libertà di spirito. Questa condizione permette di comprendere appieno l’altro e coniugare la nostra azione empaticamente, con quanto ci si trova a fronteggiare, nel modo più adeguato ed equilibrato.

Per muoversi appropriatamente entro questa dimensione da una prospettiva di studio della Via del karate, alcune deduzioni su cosa si intende con il situarsi nel luogo in cui essere e tempo coincidono e non sono più due, possono svilupparsi dal fascicolo Genjō kōan (Kōan realizzato) di Dōgen, esso dice:

“La legna diventa cenere e non torna a essere legna. Ciononostante non si deve pensare che la cenere sia il dopo e la legna sia il prima. Bisogna conoscere che la legna, proprio in quanto legna, ha un prima e un dopo, però il prima e il dopo sono separati.
La cenere, proprio in quanto cenere, ha un dopo e ha un prima. Come la legna, così anche l’uomo, dopo che è morto, non diventa di nuovo vivo.”[1]

Qui si afferma una “separazione” (legna-cenere, vita-morte, prima-dopo), proprio per sancire la a-dualità necessaria per realizzare la verità del “prima” e del “dopo”, irrealizzabile se l’uno aspetto intrudesse a contaminare l’altro.
Prima e dopo, possono essere realmente compresi nel loro portato solo se possiamo essere totalmente “prima” e totalmente “dopo” senza concedere alcuno spazio all’idea del divenire, ma essere solo ciò che si è in questo momento. In questo modo, l’assenza di pensiero attinente al divenire, che stabilisce la separazione di legna e cenere, produce la condizione a-duale necessaria che permette la risoluzione della dualità stessa.

“La legna non diventa cenere”. Quindi, age uke non diventa gyaku tsuki, la legna è legna…

Di fatto, la frase “La legna diventa cenere”, è utilizzata per indicare una comprensione ordinaria di tempo e fenomeni, mentre la reale intenzione del contesto è stabilire che “la legna non diventa cenere”. Quindi, age uke non diventa gyaku tsuki, la legna è legna (“Un mondo alla volta” direbbe Sawaki rōshi), è molto importante che age uke sia solo ciò che è, deve essere solo age uke. Così come nello zanshin non ci sono osservante e osservato, o meditante e oggetto di meditazione, fattori che statuirebbero la dualità con tutte le problematiche a essa riconducibili, ma la scomparsa di ambedue questi aspetti senza produrre alcuna idea di unità. Resta solo l’essere prima che possa attivare alcuna idea di sé, stabile nella sua natura originale.

Un esempio che ci permette di chiarire la qualità di una mente non contaminata dal pensiero ordinario posto dal divenire, si può rendere richiamando l’immagine di una qualsiasi delle nostre tecniche. Di fatto, se non si è completamente quella tecnica, quindi a-duali rispetto a essa, non c’è verità nella medesima e risulta viziata, lesa nella sua essenza. Quindi, nell’ esecuzione di un kata o in un confronto di kumite, lo spazio e il tempo devono poter essere emancipati, inverati da una energia assoluta che è il veicolo per dare senso a ogni tempo e spazio, e come indica il M° Kase, non contano tanto gli anni di pratica, pure importanti, ma come li si è spesi, la loro qualità… verità.
Quindi, per Dōgen, i dharma, i fenomeni, costituiscono la totalità del tempo e dello spazio, essi sono sempre qui-ora (nikon) condensazione transitoria della totale attività (zenki) dei fenomeni prodotta dalla pienezza del tempo (kyōryaku). Egli chiarisce nel Genjō kōan:

“Mentre il M° Hotetsu del monte Mayoku stava usando un ventaglio, venne un monaco che gli chiese: ‘La natura del vento non cambia: non c’è un luogo dove non giunge. Perché allora tu usi il ventaglio?’
Il maestro disse: ‘Tu sai solo che il vento ha una natura che non cambia. Però non sai la ragione per cui non c’è un luogo ove non giunga.’ Disse il monaco: ‘Allora, qual è la ragione per cui non c’è un luogo ove il vento non giunga?’
Al che, il maestro semplicemente agitò il ventaglio.
Il monaco si inchinò.”[2]

Il monaco afferma la sua comprensione duale e ordinaria della realtà. Egli cita “la natura del vento” (o natura-di-buddha) come avente un’esistenza sua propria immutabile e immanente, quindi per lui esistono gli esseri, in questo caso il maestro, e la natura del vento o natura-di-buddha. Afferma in questo modo il più evidente dei dualismi, una sorta di eresia buddhista, in quanto egli pone il maestro come soggetto che si attiva in funzione di qualcosa (oggetto).
Il maestro gli dice: ok, hai capito che la natura della verità non cambia, tuttavia non ne cogli l’essenza originale che è il cambiamento stesso, l’impermanenza (mujō). Il monaco ipostatizza, reifica, la natura del vento, le attribuisce delle qualificazioni, le ascrive un’identità, la circoscrive, la delimita, la colloca, di fatto, la imprigiona e la nega nella sua verità. Il maestro gli dimostra che non è in grado di capire perché sia ovunque, in quanto si sta trattando dell’ovunque stesso e non di qualcosa contenuto nell’ovunque. In sostanza, per il monaco esiste un luogo definito “ovunque”, ma dimostra di non capire l’ovunque in sé. Non capisce che solo il vento, in quanto vento, realizza il vento. Quindi, nessuna idea di vento, ma il vento stesso.

Agitando semplicemente il ventaglio il maestro lo realizza, muove l’universo stesso. Egli afferma la sua totale unità con la natura delle cose tranciando ogni dualismo per fondarsi nella natura stessa delle cose.
Quindi, quello spazio-tempo definito age uke realizza la verità di se stesso solo quando è se stesso, niente altro. Per chiarire, mai fino in fondo, cosa sia “se stesso”, i maestri della tradizione lo hanno usato e sperimentato migliaia di volte, e poi ancora migliaia di volte, e ancora migliaia di volte… perché non è facile comprendere l’inesauribile.

BIBLIOGRAFIA
[1] Doghen Eihei, Divenire l’Essere-Shoboghenzo Genjokoan, [sic!], a cura di Comunità Vangelo e Zen, Bologna, Edizioni Dehoniane Bologna, 1997, p. 23.
[2] Aldo Tollini, Pratica e Illuminazione nello Shōbōgenzō, Roma, Astrolabio-Ubaldini Editore, 2001, pp. 180-181.

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